l vangelo di Luca 14,33 si chiude così:
«…chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.»
Non faccio una esegesi, ma una riflessione.
Che cosa sono gli averi? La risposta immediata è: le cose materiali che si possiedono. Quindi qualcosa di tangibile. Ma si tratta solo di questo?
Una volta obbedito all’invito di Gesù, l’obbedienza è una cosa che la casta sacerdotale considera imprescindibile per un cammino spirituale, l’obbedienza a una gerarchia è un obbligo (furbi!), dicevo, una volta obbedito all’invito di Gesù di rinunciare alle cose materiali, mi sono fatto discepolo? Io dico di no. Se presto attenzione a Lao Tzu e a Buddha, capisco che mi sto ingannando.
La materialità non racchiude gli averi, ma sono gli averi che racchiudono la materialità, in termini matematici, la materialità è un sottoinsieme degli averi.
Gli averi sono una pluralità formata da un avere materiale e da averi mentali che, generalmente, chiamiamo desideri.
Per il Buddha i desideri sono una causa della sofferenza, la chiama dukkha, un dolore inconsistente1; Lao Tzu ammonisce che per restare nel Tao, ovvero nella retta via, dobbiamo fare il vuoto in noi, quindi non avere dei desideri.
Gesù è in linea con il monito di questi predecessori.
Anche per Gesù i desideri sono letali, perché fonte di dolore inconsistente, è un dolore che nasce dall’insoddisfazione di condurre una vita inappagante. Spesso cadiamo nel tranello di incolpare gli altri: può essere Dio, un politico, un collega, un parente, la persona con cui condividiamo la vita. Siamo talmente ipocriti quando ci stringiamo all’avere che non guardiamo dentro di noi, guardiamo fuori di noi, il male non può venire da noi, viene da fuori, perché quello che siamo è un’area proibita, siamo un dogma, non possiamo essere messi in discussione, chi lo fa ci è nemico e merita il nostro disprezzo, alziamo le difese, se ci riusciamo attacchiamo per primi sperando di annientarlo. Però la sofferenza resta.
Quando riusciamo a guardare in noi stessi? Quando al verbo avere, io ho, sostituiamo l’ausiliare essere, io sono.
Quando Mosè ha chiesto alla voce del roveto ardente come si chiamava, ha risposto: «Io sono».
Dio è ovunque, quindi è pure in sé stesso. Dio osserva tutto, pure sé stesso. Il Padre, come ci ha insegnato a chiamarlo Gesù, è puro amore, quindi, se diciamo anche noi «Io sono» è in questo percorso amorevole che ci dobbiamo dirigere.
Con «Io ho» facciamo riferimento a oggetti e desideri, riempiamo la casa di cose inutili da cui non ci sappiamo staccare, tutte importanti. Se ce ne liberiamo è per esaudire un nuovo desiderio che, spesso, è solo un bisogno indotto dal sistema produttivo, che ci spinge a sostituire una cosa funzionante con una nuova che esegue la stessa funzione. Questo ci dà sollievo, è come togliere le scarpe con un numero in meno che abbiamo indossato per tutto il giorno, godiamo di un bel massaggio, solo che poi le scarpe ce le rimettiamo. Il circuito dei desideri è inesauribile. Non dà pace.
«Io sono2», se lo diciamo veramente, lo dobbiamo dire con gli occhi chiusi, con lo sguardo apparentemente fisso sul nulla, sul vuoto, in quel terzo occhio che prendiamo sotto gamba, non ci pare così importante, eppure è lì che si focalizza la luce, è da lì che parte il silenzio, è lì che comincia la vivificante vertigine del vuoto. Se non guardiamo in noi stessi, questa condizione dell’avere ci causa solo frustrazioni, non potremo mai iniziare un percorso consapevole di liberazione o, detto in altri termini, non potremo essere discepoli di Gesù.
Non esiste la libertà, la libertà è un concetto vuoto, una bandiera che ci viene sventolata davanti alla faccia solo per renderci schiavi, esiste la liberazione. È questa la grande proposta di Lao Tzu, di Buddha, di Gesù.
1 lo definisco inconsistente, non perché non sia vero, reale, ma perché l’origine è dettata dai desideri; se svaniscono i desideri, svanisce il dolore
2 “Io sono” non è un’affermazione di identità, ma un processo di spoliazione per giungere alla nostra essenza