Roberto S. è stato una promessa della nostra cittadina. Amava correre e aveva il fisico adatto per ottenere grandi risultati. È nato da una delle poche famiglie rimaste fedeli alla cura delle pecore e alla produzione dei formaggi. Roberto ha diviso il tempo della scuola tra lo studio e il pascolo. Al pascolo studiava e correva, incurante del tempo, amava sentire le gambe rispondere alla fatica e la gabbia toracica farsi sempre più capiente, una riserva d’aria che gli permetteva di affrontare salite impervie.
Alle medie era stato scelto per rappresentare la scuola alla maratona dei Giochi della Gioventù. Si coprì d’oro, per lo meno a medaglie. Non era destinato a continuare gli studi, l’attività di famiglia lo aspettava, ma le insistenze dell’insegnante di educazione fisica, come si chiamava allora, convinsero il padre a non sprecare il talento del figlio. Grazie ai contatti del professore entrò alla “Nunziatella” a Napoli per frequentare il liceo e, soprattutto, per poter migliorare l’attività sportiva, seguito da ottimi allenatori.
La scuola militare gli aveva permesso di crescere nel rispetto di sé stesso, di essere leale con i compagni e di non temere la fatica.
A diciotto anni conobbe Marcella, una bella napoletana con cui desiderava formarsi una famiglia. I genitori erano fieri dei risultati del figlio, quando arrivava a casa in divisa si riempivano d’orgoglio, le gare vinte facevano di lui una conferma nella maratona, aveva partecipato agli europei d’atletica a diciassette anni, arrivando sesto. La strada per le olimpiadi era spianata.
A diciannove, passata la maturità, aveva cullato l’idea di sposarsi. Marcella era disposta a seguirlo ovunque e ovunque era Roma, dove avrebbe proseguito ad allenarsi e difendere i colori dell’Esercito. Vinse gare internazionali, ormai era qualcosa di più di una promessa dell’atletica italiana.
Si trovava in vacanza con Marcella per un senso di affaticamento che non lo abbandonava, probabilmente il corpo lo stava avvisando di rallentare gli allenamenti, serviva un po’ di riposo, doveva staccare la spina dall’ossessione di essere sempre pronto per una competizione, e alcune giornate all’insegna dello svago facevano bene anche al loro rapporto, regolato da norme ferree per mantenere alta la sua prestazione sportiva. Tuttavia la fatica non lo abbandonava, si alzava stanco; Marcella aveva notato in una passeggiata notturna che ciondolava leggermente, forse non avrebbe dovuto bere quel bicchiere di vino. Non era il vino, al rientro gli esami clinici avevano dato il responso: distrofia muscolare.
A Roberto S. crollò il mondo: erano finite le gare, il medagliere era completo, doveva tornare a casa dai suoi e senza Marcella che, sconvolta dalla notizia, non era riuscita ad accettare di condividere una vita con lui. Questo contribuì ad affossargli il morale e la malattia ne guadagnava. L’Esercito gli trovò lavoro presso il comune, all’ufficio anagrafe. Una vita finita, in attesa che la malattia lo divorasse lentamente.
Accadde che Teresa D. aveva bisogno di un certificato e si rivolse al trentenne Roberto S., il quale, nei giorni in cui il dolore era sopportabile, era gioviale e simpatico. Quel giorno non sentiva dolori; Teresa, coetanea e con un divorzio alle spalle, aveva sentito subito un’empatia e abituata a non rimandare a domani, gli chiese se voleva uscire con lei quella sera. Roberto si era fatto serio, non lo vedeva che si muoveva con un bastone? Sì, gli ricordava i vecchi nobili. Non era nobile, era distrofico. Bene, lei era Ariete, ma non credeva nell’astrologia: allora era un sì o era un no?
Ora vivono assieme. La malattia lo ha peggiorato, ma non lo ha vinto, Teresa fa la differenza. Ha girato l’Italia, con la sua lentezza, senza fretta. Quando la malattia lo tortura e non riesce a trovare pace, Teresa gli ha insegnato a progettare. La malattia morde? Comprime il respiro? Non doveva dargliela vinta, gli aveva assestato il gancio violento ed era al tappeto? Bene poteva riprendere fiato, l’arbitro doveva contare fino a dieci prima di dire che aveva perso. E mentre scandiva i dieci secondi, sono tanti quando si sta male, infiniti, progettava un viaggio e se non poteva viaggiare si faceva portare il libro di ricette: avrebbe viaggiato tra i sapori. Uno, due, tre. Sì, un giro a Napoli, un bel sartù di riso. Quattro, cinque. Lo avrebbe cucinato lui, gli piaceva cucinare. Sei, sette, otto. Era tornato il respiro, Teresa era lì che lo massaggiava, come avevano imparato nella ginnastica correttiva. Era di nuovo in piedi. Nessun KO. Era pronto a ricominciare. Lo doveva a sé stesso, a Teresa e alla vita.