Capitàno, mio capitàno

1987, Estate, Lisbona, tardo pomeriggio.
Sono in un taxi che mi riporta all’albergo. Il tassista è loquace, mi chiede da dove vengo e dove ho trascorso la giornata.
“Na praia de Cascais”, nella spiaggia di Cascais.
«Ah», imbecca lui, «sei stato dal re!»
Trasecolo, quale re?
«Ma il re d’Italia!», ribatte sbalordito.
Accidenti, è vero, a Cascais vivono i Savoia in esilio!
E mi viene alla mente il nonno materno.

Nonno, “il capitano”, com’era soprannominato, no, non è stato un militare in carriera, lo chiamavano “capitano” semplicemente perché richiamato nel 1939 dal Duce e spedito prima in Libia (in Cirenaica, per restare ai nomi di allora), e poi in Alsazia e in Alta Slesia per preparare la guerra, restando lontano da casa sei mesi, aveva tra i suoi compiti di soldato semplice quello di pulire gli stivali del suo capitano. All’inizio il titolo di “capitano” era uno sfottò, col tempo era divenuto un titolo distintivo, il nonno era l’unico tra i suoi amici che sapeva leggere, e dall’Alta Slesia tornò esprimendosi in tedesco. Vivendo in una cittadina balneare frequentata da Tedeschi, gli piaceva fermarsi e chiacchierare con loro. Un intellettuale secondo gli amici analfabeti.
Ebbene il nonno amava la monarchia. Tutti sapevano che il suo voto andava al Partito Monarchico, ma quando il partito svanì nessuno seppe mai per chi avesse poi votato.
Io l’ho scoperto nell’ultimo periodo della sua vita quando, ventenne o poco più, lo avevo accompagnato ai seggi. Il Parkinsons lo stava aggredendo, ancora camminava, ma dovevo sorreggerlo. Parkinsons o non Parkinsons, lui il diritto di voto lo voleva esercitare, e così lo accompagnai alle urne.
Lo tenevo sotto le ascelle, perché non sapeva sostenersi da solo. Non gli importava niente se si presentava sorretto in quel modo, lui doveva votare. Lo portai alla cabina, il presidente del seggio mi aveva intimato di scostarmi, doveva entrarci da solo, ma se lo facevo nonno cadeva, e allora mi aveva detto di trovare il modo di stare fuori dalla cabina. Così avevo drizzato le braccia e lo sostenevo con enorme fatica, sperando che non si perdesse nella sua lentezza, ma questo non avvenne. Le braccia mi dolevano. Quando disse di aver terminato e mi mostrò le schede piegate dissi:
«Se penso che sto facendo tutta ‘sta fatica per dare un voto ai democristiani, mi ammazzerei!»
Il nonno sbarrò gli occhi ed esclamò: «Eh! Hai guardato?»
«T’ho scoperto, finalmente!», lo canzonai felice.
Però il suo amore per i sovrani era autentico. L’ho visto piangere solo due volte. La prima è quando morì il negus Haile Selassie, non credo che ne sapesse niente di Rastafarianesimo o di Jah, solo lo considerava un bravo re.
La seconda è stata dopo un TG. Lo accomodavo alla sedia per guardarsi il telegiornale della sera e andavo a riprenderlo mezz’ora dopo per accompagnarlo a letto. Quella sera era in lacrime: «Che hai?», chiesi.
«È morto Umberto», non serviva aggiungere altro, di Umberto c’era solo lui, l’ultimo re d’Italia.
Mentre lo accompagnavo su per le scale disse quasi urlando: «Il Duce ha rovinato tutti, anche la famiglia reale!»
Questo per il nonno era il peggior peccato, puoi rovinare un popolo, ma non puoi rovinare un re.

Torno al 1987.
Mi riprometto di tornare a Cascais, a fotografare villa Italia, così da far felice il nonno. Sapere che il suo nipote è andato a omaggiare il re, lo avrebbe riempito d’orgoglio (anche se a me del re mi importava meno di niente).
Giorni dopo torno a Cascais.
Da che parte vado? Entro in un’edicola, ci sono dei giornali italiani, vedo “L’Espresso” con un gadget, “Finzioni” di Borges. Lo compro per il libro. Chiedo all’edicolante se mi sa dire dove vivono i Savoia. Mi dice di andare avanti, presso una gelateria gestita da Italiani, lì mi daranno le informazioni che cerco.
Cammino per i negozi della cittadina balneare e trovo finalmente la gelateria, ha delle bandiere italiane esposte. Entro.
È arredata con foto e testoni del mascellone. Resisto alla tentazione di andarmene, chiedo del proprietario. Mi guarda sospettoso e un po’ altezzoso, testa alta a imitazione del Duce. Gli chiedo se mi sa indicare dove si trova villa Italia. Si apre in un sorriso e mi abbraccia: «Che bello! Anche i giovani amano il re! Quelli come te sono l’orgoglio dell’Italia!»
Fingo compiacimento, mi serve l’indirizzo, e lui mi indica la strada. È un po’ fuori città. Non importa, sono in ferie, posso camminare, non ho fretta.
Arrivo davanti a villa Italia. I cancelli sono aperti. Entro. Magari per gli Italiani hanno un occhio di riguardo.
Mi si parano subito davanti delle guardie del corpo e mi dicono di andarmene. Sono Italiano. Devo andarmene. Voglio solo scattare delle foto ricordo. Assolutamente no, fuori. Non insisto, brutta gente.
Torno in strada, i cancelli si chiudono. Cerco un’angolatura decente e scatto delle foto per “il capitano”.
Dopo un paio di scatti mi blocco: «Ma perché sono qui? Nonno è morto due anni fa!»
Spendo il resto della giornata in spiaggia, chiedendomi che cosa mi ha spinto a buttare via mezza giornata per delle foto inutili. Apro il cellophane, cestino “L’Espresso” e comincio a sfogliare il libro. E mi lascio avvolgere dalle parole del più grande scrittore che mi sia capitato di leggere.

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