Un altro giorno è andato

Con questo racconto ho partecipato a un concorso l’anno scorso. Mi piaceva il tema e l’imposizione di non superare una data lunghezza, era una sfida per me riuscire a rimanere dentro a dei confini. Il tema era scegliere il titolo da una canzone di Francesco Guccini.

Non sono arrivato primo, neppure secondo, neppure decimo, malgrado questo, ve lo propongo.

Quella che sta finendo è una giornata che mi è piaciuta, mi sono recato da personcine ben vestite incravattate, profumate, con le unghie curate, rasate che anziché chiedermi soldi me li hanno dati.

Un bel gruzzolo. Vent’anni di versamenti, per avere in cambio ventimila euro. Vent’anni di polizza vita che la personcina incravattata, profumata, con le unghie curate e rasata desisteva dal consegnarmi.

«Pensi al domani, le pensioni non saranno più quelle di chi ci ha preceduto, non riuscirà a sopravvivere, ci vuole quella integrativa».

«Già ce l’ho».

«Ma non basta», insisteva, «si fidi di me, converta anche questi, meglio una goccia continua che bersi tutto il bicchiere subito, la sete è una gran brutta bestia, avrà pur diritto a godersi dignitosamente gli ultimi anni!»

Chissà quanto hanno fruttato i miei risparmi a questa compagnia di assicurazione, e quanto potranno ancora fruttare se la personcina è così restia a consegnarmeli. I ventimila euro sono di certo le briciole di tutti i movimenti e i guadagni che loro hanno mosso in vent’anni. Ho ringraziato delle spiegazioni, ma preferivo avere i contanti. E la personcina non demordeva, si vedeva che ci teneva al mio domani, su un foglio ha disegnato le assi cartesiane e sull’asse Y ci scrisse €, su quella X la t. Disponibilità di denaro nel tempo, spese, imprevisti che potevo affrontare serenamente con la goccia continua, dramma se quei soldi me li spendevo tutti subito su un’auto nuova, perché è a questo che si pensa, all’effimero. Ha usato proprio questa parola, effimero, e l’ha pronunciata sussurrandola, smorzandola alla fine, spalancando gli occhi e rimanendo un attimo in silenzio.

«Meglio la goccia continua, dia retta a me, pensi al suo domani», ha detto terminando la sua recita.

Allora ho voluto essere altrettanto teatrale:

«Non ho un domani, ho un cancro, mi dia i miei soldi!»

La personcina si è spostata dal banco che ci divideva, timoroso di essere infettato, ha staccato gli assegni e li ha posati sul banco, non me li ha dati in mano per evitare il contagio, ho salutato il volto abbronzato che si era fatto pallido e me ne sono andato.

Sono stato cattivo lo confesso, godo di ottima salute, ma dei miei soldi ci faccio quello che mi pare.

Quando avevo sottoscritto la polizza, vent’anni fa, mi era sembrato di aver posto la firma sull’infinito. Non ero convinto di quello che stavo facendo, ma i miei colleghi, interessati più di me a non far morire i loro risparmi, investivano ovunque le loro miserie, in buoni del tesoro, in azioni, in polizze vita. Mi avevano spiegato che la polizza era un ottimo modo per dare ossigeno ai soldi, sarebbe aumentato il capitale e potevo detrarlo dalla denuncia dei redditi, due conti e mi avevano convinto che era la cosa giusta da fare. Subito dopo aver firmato, mi ero sentito a disagio, per vent’anni mi ero autoinflitto un balzello, un tempo esagerato, che non sarebbe mai arrivato alla fine. Se dovessi firmarla oggi, vent’anni mi sembrerebbe un tempo ridicolo: quante probabilità ho di vivere altri vent’anni?

E in questi vent’anni, mentre la personcina attendeva ogni mese il mio balzello e lo metteva a frutto, che cos’è accaduto nella mia vita? Mi sono invaghito di tante, innamorato di poche, legato solo a lei.

Ho ascoltato dottrine, inseguito sogni, invocato la pace, urlato per la libertà. Ho taciuto disilluso, amareggiato, quando ho scoperto che chi invocava con me la giustizia non lo faceva perché ci credeva ma per interesse. Che l’impegno politico non dura a lungo, con me non è durato, è un tram dal quale sono sceso molte fermate prima del capolinea, incapace di sopportare dei compagni di viaggio che hanno abdicato alla passione per la propria affermazione, lo spirito di servizio per il tornaconto. E sono rimasto sotto la pensilina ad ascoltare dei giovani che quella passione la stavano alimentando, compiaciuto, speranzoso. Ho parlato con loro, mi sono permesso di raccontare la mia esperienza e un altro signore ha fatto lo stesso. Bello, lo scambio intergenerazionale c’è, mi dicevo. Ma mi sono sbagliato, anche tra chi scende dal tram ci sono gli arrivisti, peggiori di quelli che hanno continuato il viaggio, perché non discutono, i giovani li vogliono imbrigliare nei loro ragionamenti, manipolare, gestire, che hanno una gran sete di vendetta, di rivalsa e a loro i giovani servono solo a questo, distruggendoli, seminando fallimenti.

Poi un giorno mi sono guardato allo specchio, i giorni erano succeduti ai giorni, non ero più uno che poteva stare alla pari con i ventenni: il tempo, inesorabile, passa; non possedevo più il loro linguaggio, potevo stare loro accanto, esprimere un’opinione se me la chiedevano, raccontarmi, ma non potevo permettermi di suggerire che cosa fare, potevo solo stare al loro passo, stare loro vicino, ma il futuro lo dovevano pensare loro.

I giorni vanno, lo spirito rimane vivo, il corpo prova a imitarlo, ma gli acciacchi arrivano, arriva il fiatone dopo una breve corsa, la spossatezza sopraggiunge prima. Si cercano nuovi equilibri, letture e incontri ti aprono nuove strade, le mani che tocchi trasmettono nuove richieste, le parole che raccogli ti aprono il cuore, ti fanno vedere il mondo da un’altra angolazione, ascolti grida che non consideravi.

E poi, un bel giorno, dici: «Sì» a quella creatura, senza sapere perché, non le riconosci qualità uniche, non ne rimani stregato dalla bellezza, non sopporti i suoi difetti, eppure… eppure c’è un qualcosa che travalica la ragione, qualcosa che ti spinge a volerla vicina, a starle vicino, senti che la sua carezza vale più di ogni tesoro: perché? Non lo sai, lo chiamano amore. Che cos’è? Quel senso di gratuità, quel volerle essere vicino, essere la persona su cui può contare, malgrado tu sappia di non essere un eroe, di avere la tua dose di vigliaccheria, di meschinità, di non essere un santo, di non avere pazienza, di essere facile alla rabbia, eppure vuoi esserle accanto, scoprire con lei la reciproca confidenza, mostrarti per quello che sei, accettarla per quello che è. Perché non la cambierai, non ti cambierà: cambierete assieme.

Poi arriva il giorno che lei tiene tra le braccia il bambino che avete voluto. Tutto cambia ancora: padre e madre per sempre. Non c’è appello, non c’è possibilità di ritornare sui propri passi, lui c’è. E devi imparare a essere padre senza nessuna lezione, nessuna spiegazione, solo tu con le tue debolezze, solo lei con il suo grande istinto e la responsabilità di una vita: l’uomo che sarà dipende dal tuo essere padre, dal suo essere madre. E poi ne giunge un altro e un altro… Così è stato per me, cambiano le priorità, guardi con nostalgia i giovani, rivedi in loro le emozioni che hai vissuto, le vorresti riprovare, un desiderio che rimarrà inappagato, «non si torna indietro neanche per prendere la rincorsa», diceva qualcuno ai tempi della mia gioventù. Sempre avanti, un giorno se ne va, un altro arriva, ti sembra un’abitudine, giorno e notte, lavoro e famiglia, sembra una monotonia, e invece cambia tutto: le rughe iniziano a segnarti il viso, i capelli che non ti hanno abbandonato iniziano a imbiancarsi, tutti ti danno del lei.

Se devo ripensare ai miei cambiamenti, devo riconoscere che sono stati tutti un di più. Ero solo ed è arrivata lei. Vivevamo dei nostri baci e il suo ventre è lievitato. I miei cambiamenti sono stati delle aggiunte di vita.

Una volta avevo parlato con un ex atleta, che aveva avuto una buona fortuna, aveva girato il mondo, a fine carriera lo avevano chiamato in televisione, delle particine in qualche film, poca cosa, ma la poteva sbattere in faccia agli astanti con orgoglio e lo aveva fatto pure con me dicendomi:

«Io conosco la vita!», ovvero se l’era goduta. Ma che cosa si era goduto? Si era goduto la sua vita, solo e unicamente la sua, non era andato oltre il suo corpo, lo aveva appagato di ogni piacere, ma di vite conosceva solo la sua.

Io no, conosco anche quella di lei e dei miei tre figli, sono legate alla mia, una mia scelta ricade anche su di loro, nel bene o nel male. L’atleta si pavoneggiava di conoscere la vita, io conosco delle vite. Ne so molto più di lui, ne ho da raccontare di più di lui. Posso raccontare senza essere il protagonista, lui no, lui può parlare solo di se stesso. Posso raccontare di tutte le volte che ho visto maturare i miei figli, essere stato loro accanto nei momenti difficili, averli consigliati per il meglio, sgridati, abbracciati. Valgono molto di più di una cena con una star di Hollywood.

Posso raccontare di quando ho litigato con Dio e gli ho girato le spalle, non avevo niente da condividere con il Dio degli eserciti, violento e vendicativo, pronto a punirmi per ogni cosa, anche solo per un pensiero o per un desiderio. Non mi interessava un Dio che prima di parlare con me pretendeva pentimento e ubbidienza. Provavo disgusto per quella gerarchia da regime assoluto che Lui aveva stabilito quale sua espressione terrena. No, di un Dio così non avevo bisogno, non potevo amarlo.

Poi un giorno mi capita un ragazzino lercio, straccione, miserabile, respira colla da falegname per sopperire alla fame e mi dice: «Sono Io!»

Non aveva occhi di vendetta, non aveva l’arroganza e la supponenza di chi vuol essere adorato, aveva lo sguardo del vinto, del sofferente, di colui che chiede solo amore, di essere accolto.

Da quel momento è cominciato il mio cammino per liberarmi della religione e conoscere Dio. Solo anni dopo gli ho offerto dell’acqua dalle mie mani.

E ora? Ora non lo so. È andato un altro giorno. Con il gruzzolo vorrei fare molto, ma farò ben poco, coprirò le spese degli studi dei figli, hanno un sacco di giorni davanti a loro, hanno speranze e io e la mia signora godiamo di queste. Per quanto ci riguarda, ora che sono grandi, ci riprenderemo il tempo che abbiamo dedicato a loro, per continuare i valzer che abbiamo abbandonato tanti anni fa, per guardarci ancora, vivendo la stessa emozione di stare a tempo tenendoci abbracciati.

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