La prima volta che lo ascoltai fu attraverso una musicassetta che acquistai nella zona di Cantù, eravamo ospiti io e mamma presso dei parenti di lei. Era stata mamma che me ne aveva parlato bene, io lo conoscevo solo per un paio di canzoni che avevo ascoltato in quelle che allora nascevano come funghi e si chiamavano radio libere. L’aggettivo libera dava il segno del bisogno che c’era in quegli anni di sentire qualcosa di altro, di nuovo, di diverso da quello che veniva proposto o imposto dalle emittenti di Stato. L’avvento delle radio private sono state un’onda travolgente che si è abbattuta nel grigiore di una vita culturale monocorde, espandendosi in mille rivoli, mille opportunità da cogliere con la monopolina dei ricevitori FM che si imbatteva sempre in stazioni nuove. Bastava spostarla di poco e si diventava protagonisti sentendo il proprio nome in un programma di dediche, ci si imbatteva in un programma di hard rock, nei ritmi della neonata discomusic, nelle poesie dell’effervescenza cantautorale nostrana, nella musica country, in quella west coast, nel nuovo e alternativo punk rock, nel sofisticato jazz, nel malinconico blues, in un’orchestra sinfonica. Perché allora le radio libere proponevano di tutto, ogni genere musicale assieme a discussioni frivole o politicizzate. C’era una grande esigenza di dire e una gran bisogno di ascoltare. Col tempo la voglia di dire è venuta meno e l’ascolto è stato pilotato dall’industria, le radio hanno dimostrato il loro volto autentico, quello privato, sono sopravvissute quelle che hanno affrontato la sfida con una logica commerciale e oggi sono tutte uguali: musica pop e frivolezze, qualche mosca bianca sopravvive, ma è una mosca.
La musicassetta non dava ragione alle sperticate ovazioni di mia madre, la trovavo noiosa e difficile, si salvavano pochi brani: La città vecchia; Delitto di paese; Valzer per un amore. Però questi tre mi piacevano proprio.
Mi aiutarono le radio libere ad apprezzarlo: Canzone di Marinella; Boccadirosa; La guerra di Piero; Il pescatore; Carlo Martello… eh sì, era un genio!
Canzoni che si sono mescolate e diventate tutt’uno col mio DNA.
Nel 1978 finalmente mi era stato regalato il desiderato stereo: il primo disco? Rimini. I fan più politicizzati erano scandalizzati: era diventato commerciale, ovvero non cantava solo con la chitarra, ma aveva dato colore ai brani con una buona base ritmica, chitarre e tutto quello che serve a fare musica. A me piaceva, molto.
Con i risparmi dalle paghette domenicali mi recavo ogni due, tre mesi al negozio di dischi e decidevo quale album portarmi a casa. Ci impiegai tre anni per farmi la sua discografia, anche perché c’erano altri artisti che meritavano attenzione: come rinunciare a The Wall? E Simon & Garfunkel? Ed Eric Clapton?
Di dischi tra comperati e scambiati ne avevo abbastanza, ma sul piatto lui aveva il monopolio, la giornata non era piena se non avevo ascoltato un suo LP.
Poi arrivò l’opportunità di andarlo ad ascoltare dal vivo, a Conegliano, con l’amico maggiorenne che poteva guidare la 500 del padre.
Con lui avevo ipotizzato di passare le ferie in Sardegna, andarci in Vespa. Probabilmente lui aveva per la mente ragazze e spiagge, io pensavo a Tempio Pausania, andarlo a trovare. Non se ne fece nulla, dalle nostre parti l’Estate è fatta per lavorare non per bighellonare.
Eppure a lui non mi sono mai avvicinato, neppure dopo i concerti. Temevo la delusione. Avevo letto di un ragazzo fan di De Gregori trattato male da quest’ultimo. E se il mio idolo si fosse comportato in modo analogo?
C’era in ballo qualcosa di più della tristezza, mi giocavo il mio mito, mi giocavo la scelta di campo che avevo fatto grazie alle sue canzoni e grazie alla lettura di Se questo è un uomo. Mi giocavo me stesso.
Ora mi rendo conto che è una situazione che non si sarebbe presentata. De Gregori, quello di allora, era un giovane infarcito di idee sessantottine, la lotta di classe e altre amenità, soprattutto credeva nell’uguaglianza, forse per questo rifiutò l’autografo, per uguaglianza, l’autografo si chiede alle star non alle persone normali.
Ma Fabrizio era un anarchico, non credeva nell’uguaglianza, credeva nella fraternità, e la fraternità accoglie chiunque.
Qualche anno fa, leggendo una sua biografia, ho saputo che anche lui aveva un mito: Brassens, e non lo avvicinò mai per paura della delusione.
Mi ha fatto piacere saperlo, ho vissuto il suo timore.