Quaranta ha un significato speciale: secondo la Bibbia è il tempo necessario per rinnovare l’umanità. Quarant’anni hanno vagato nel deserto gli Ebrei seguendo Mosè dopo aver abbandonato l’Egitto per raggiungere la Terra Promessa; quaranta giorni Gesù è rimasto nel deserto per trovare la forza per adempiere alle Scritture. Quaranta. Non è solo un numero, è l’attesa.
Il salmo 40 apre così:
“Ho pazientemente aspettato il Signore,
ed Egli si è chinato su di me e ha ascoltato il mio grido”.
È la frase che distingue il Dio della Bibbia da tutti gli altri. Non un Dio che pretende di essere riverito, ma un Dio che ascolta il grido di dolore e interviene.
Quaranta, un numero che fa la differenza.
Oggi ho condiviso un’esperienza importante con altre persone. Un momento che ha atteso quarant’anni per manifestarsi e farsi emozione, passione, gioia, appartenenza.
L’idea è stata covata e alimentata da uno dei più balordi di noi, da quello che ha sempre avuto una gran gioia di vivere e la esprimeva nei momenti sbagliati. Mauro è sempre stato la simpatia. Era colui che nella nostra classe delle elementari le lezioni le passava fuori dalla porta, in castigo.
Lui si è incaricato di recuperare la nostra storia, lunga quarant’anni, ci ha cercati a uno a uno, per ritornare ancora assieme, uniti, vivi e appassionati attorno alla nostra maestra.
E quando la classe delle elementari chiama bisogna rispondere: «Presente!»
E così ci siamo rivisti, quarant’anni dopo, forse non tutti con animo aperto, forse con qualche resistenza, con qualche prevenzione, che è svanita, evaporata nell’istante in cui gli sguardi si sono incrociati. L’empatia ci ha avvolti, eravamo tutti lì, ritornati a quei banchi di scuola, attenti alle parole della maestra, una figura di madre a cui non dovevamo solo rispetto, ma ci aveva catturato con l’affetto.
E lei, la nostra maestra, oggi stava al centro della tavola, omaggiata, applaudita, baciata, accarezzata, ma con le parti invertite, non era più lei ad avere cura di noi, eravamo noi, riconoscenti, ad aver cura di lei.
E ci guardavamo, ci canzonavamo, quasi che quei quarant’anni con ci fossero mai stati, non fossero mai trascorsi, probabilmente perché l’anima non invecchia mai, forse perché le cose che crediamo di aver dimenticato non lo sono mai. Forse perché lo Spirito ci accomuna e cresce proprio nei momenti di gioia, di fratellanza, di unione. Sarà per questo che sentivamo presente anche Monica, divorata da un male a quattordici anni, la più carina della classe, quella di cui tutti i maschietti si erano innamorati, non tanto per il suo bell’aspetto quanto per la dolcezza, per i modi gentili, per il sorriso.
Ci siamo rivisti, riconosciuti, e abbiamo proseguito il discorso interrotto quarant’anni fa, come se il tempo non fosse passato, perché il tempo non ha niente da spartire con lo Spirito e i nostri spiriti si sono ritrovati oggi, rinnovati, grati per quello che la vita ci ha dato, a cominciare dai cinque anni condivisi tra noi e la nostra maestra. È bello appartenere alla quinta A dell’anno 1973-74!