Le mura antiche e l’acciottolato che davano lustro e prestigio al centro storico adagiato nel saliscendi della collina, erano avvolte da una fitta nebbia; l’umidità rendeva sdrucciolevole in alcuni punti la strada silenziosa. Di tanto in tanto un lampione tentava di far filtrare la sua luce, ma si addensava a quella fredda nuvola avvolgente, costringendo un estraneo a camminare alla cieca. Per lui non era un impiccio, in quel paese c’era nato e cresciuto e conosceva ogni svolta, ogni salita, ogni discesa, ogni lastricato, mattone o ciottolo, ogni via e viuzza, ogni portico, ogni chiesa, ogni palazzo. La sua sicurezza era comune a uomini e donne che nei secoli avevano vissuto in quel borgo giocandosi la vita già dal Medioevo, si sentiva importante a calpestare le vie che sono state lo sfondo comune a migliaia di destini, diversi e analoghi, con la voglia di cercare la felicità che si scontrava con la fatica e le disillusioni. Cavalieri, benestanti, dame, pellegrini, artigiani, prostitute, ladri e straccioni a sudarsi una condizione di vita migliore, sopportando le sconfitte del presente, ma ancora mai vinti, sempre tenaci e pronti a riprovarci. Quante vite anonime lo avevano preceduto, quelle mura ne racchiudevano lo spirito, ogni pietra evocava la vita. Le automobili transitavano rade, a quell’ora se ne stavano tutte a sonnecchiare rasenti agli edifici, per consentire un po’ di spazio alla circolazione. Erano vie adatte ai pedoni, ai cavalli, ai carri, tutta la tecnologia moderna era un insulto a quella bellezza. Quelle vie labirintiche erano state pensate per mitigare i venti e permettere alla gente un riparo, per quanto possibile.
Era in procinto alla ripida salita che lo avrebbe portato finalmente a casa. Chi l’aveva progettata e realizzata secoli prima l’aveva immaginata a rampe dagli scalini bassi, comoda per il viandante e comoda per i cavalli, ma il turista disabituato arrivava alla fine col fiatone. Lui no, la poteva percorrere anche dieci volte senza sforzo eccessivo.
Si era alzato il bavero per proteggersi dall’umidità, a quella non si era abituato. I capelli lo stavano salutando e da qualche mese aveva iniziato a radersi la testa, la calvizie non doveva essere una sventura, ma una scelta. Non gli dispiaceva il risultato: aveva un bel teschio, gli occhi azzurri e quel filo di barba gliela dava vinta sulla sfida lanciatagli dalla calvizie. Però aveva freddo, quella mattina si era svegliato tardi, aveva accumulato ritardo, aveva fatto tutto di fretta, tralasciando tante cose, tra queste, il berretto. Doveva ricordarsi che era diventato un vestiario indispensabile, altrimenti le emicranie avevano la meglio. Infatti provava dolore alla fronte e alla parte alta della testa e se qualcuno gli avesse toccato le orecchie sarebbero andati in frantumi tanto erano ghiacciate. Ancora qualche rampa e si sarebbe trovato nella piazzetta dove c’era casa sua.
«Ehi, signore!» si sentì chiamare, si girò ma la fitta nebbia gli impediva di vedere se non una persona, almeno la sua sagoma. Si fermò nell’attesa che qualcuno apparisse, ma non sentiva nessun rumore di passo, si trovava vicino al muro da cui i turisti nelle belle giornate scattavano foto panoramiche alla vallata.
«C’è qualcuno? Non la vedo, venga più vicino!» attese, ma non si palesò nessuno. Forse si era sbagliato, forse la sua mente aveva tradotto un rumore in una frase, vai a sapere che scherzi può fare la mente! Continuò la sua salita. Era alla fine della scalinata quando sentì ancora:
«Ehi, signore!»
Si trovava proprio sotto un lampione, la luce e la nebbia avevano formato uno strato lattiginoso che impediva di vedere oltre due spanne.
«Chiunque lei sia, non la vedo, venga più vicino!» niente. Ma la seconda volta che si era sentito chiamare riuscì a dare una tonalità alla voce, sembrava quella della morte: stridula e fredda, non era maschile e non era femminile. La breve attesa aveva fatto crescere in lui dell’ansia. Nessun passo, niente di niente, solo il suo respiro che si faceva affannoso. E se fosse stato un aggressore? Se stava aspettando il momento propizio per attaccarlo? Non aveva alcun oggetto per difendersi, doveva contare sulle sue mani, sulla sua forza. Non vedeva altra possibilità di salvezza che correre più svelto possibile verso casa, era ormai a una quindicina di metri. La voce era arrivata da dietro di sé, quindi non doveva trovarsi tra lui e la casa, era stato fermo, non aveva sentito dei passi. Mise una mano in tasca e afferrò la chiave, la strinse forte tra pollice e medio quindi, sperando di giocare d’anticipo, scattò verso casa. Sentì il battito del cuore salire, forse più per la paura che per la corsa, doveva guadagnare lo spazio necessario per il tempo che avrebbe impiegato l’inseguitore a raggiungerlo mentre apriva la porta.
Per la terza volta si sentì chiamare:
«Ehi, signore!» questa volta accompagnato da una stridula risatina.
Non si fermò cercò di metterci più forza in quelle gambe che sentiva di burro. Era davanti a casa, inserì al secondo tentativo la chiave nella porta, aprì, recuperò la chiave mentre entrava lesto e chiuse l’uscio dietro di sé. Appoggiò la schiena alla porta e accese la luce, aveva il fiatone: era salvo!
Sentì una botta violenta, si staccò dalla porta e la guardò. Sentì la risatina, poi più niente.
Se ne stava fermo anche lui dall’altra parte? Solo quel po’ di legno li divideva? Non sapeva che fare. Chiamare il 113? Per dire che cosa? Che venissero a controllare se qualcuno stava davanti a casa sua? Si guardò intorno, non aveva voglia di lasciare la posizione. Se avesse tentato di forzare un balcone e la finestra lo avrebbe udito e si sarebbe precipitato per attaccarlo: con che cosa? Non voleva lasciare l’ingresso. Sullo scrittoio d’entrata c’era un soprammobile veramente brutto e ora faceva al caso suo. Era un sasso di un paio di chili o forse più, su cui c’erano disegnati dei papaveri: era il regalo di compleanno di una sua nipote creativa. Ora era diventato un’arma di difesa.
Se lo tenne vicino, si sedette a terra, si appoggiò al muro, in attesa, fissando la porta e acutizzando l’udito. Poi, senza rendersene conto, si addormentò.
Il dolore che proveniva dalla zona sacrale lo svegliò: stava albeggiando. Era piegato verso lo scrittoio, si alzò lento, si sentiva indolenzito ovunque. Accese le luci di tutte le stanze, con in mano il sasso pronto a colpire chiunque; regnava il silenzio. Era solo in casa. In cucina prese un coltello grande, era più maneggevole del sasso. Constatò che in casa, per fortuna, non c’era nessuno.
Che brutta storia! Ormai doveva prepararsi per andare al lavoro. Tenendosi il coltello vicino andò in bagno per prepararsi. Forse era tutta una suggestione. Ubriaco? No, non si era ubriacato. Probabilmente la camminata spettrale gli aveva alimentato ricordi di film del terrore o racconti simili, vai a saperlo! La mente che strani scherzi fa! Chissà, forse è stato il verso di un animale… per tre volte? Perché no? E la risatina? Una iena? Non c’erano iene da quelle parti! Alla fine si disse che doveva stare all’erta senza farne un’ossessione. Poteva essere tante cose, poteva essere niente. Forse l’alcol… d’accordo, non aveva bevuto da ubriacarsi, ma aveva bevuto: si impose che alla domenica sera non doveva più bere. Si mise su la moka, bevve il caffè, ultimo giro in bagno, si cambiò i vestiti, si mise il berretto, lasciò il coltello sullo scrittoio e uscì.
Chiudendo a chiave la porta raggelò: all’altezza degli occhi c’era stampata un’impronta di mano che aveva bruciato il legno! Ripensò alla botta che aveva udito quella notte, ora aveva davanti a sé il risultato!
Con timore toccò l’impronta, avvicinò il naso, si sentiva l’acre odore del legno bruciato. Misurò la sua mano aperta con quella impressa, era poco più grande o forse sembrava così per l’alone della bruciatura. Non era stato l’alcol, non era suggestione, quello che aveva vissuto quella notte era vero! Qualcuno o qualcosa lo aveva seguito fino a casa e poi aveva realizzato quell’impronta.
Rientrò in casa, chiamò il lavoro e si diede ammalato. Si sedette in cucina. Chi era stato? Che cosa doveva fare? Un demone maligno? Doveva chiamare un prete? Non credeva a simili facezie. Doveva esserci una logica, un ragionamento sensato a svelare il mistero. Chiamò Remo, il suo amico confidente, aveva un negozio con dei dipendenti, poteva assentarsi e andare da lui. L’amico lo rassicurò, apriva bottega, dava delle direttive e poi sarebbe corso da lui.
Quando Remo vide l’impronta rimase turbato, dopo aver ascoltato il racconto era sconvolto. Il racconto era inverosimile, si sarebbe scivolati facilmente nel mistero, nel satanico, ma lui era una persona concreta, tutto doveva avere una spiegazione.
«Antenore, restiamo con i piedi per terra e cerchiamo di ragionare, va bene?»
Antenore si staccò dal tavolo della cucina e si appoggiò alla spalliera, Remo invece rimase con le braccia sul tavolo a gesticolare con le mani.
«Hai litigato con qualcuno?»
«No!»
«C’è qualcuno che ti ha ripreso per qualcosa? Anche cose sciocche: al lavoro, un posto per il parcheggio, una spinta inavvertita, cose così…»
«Ma no!» rispose quasi con fastidio.
«Hai debiti?»
«No!»
«Sei stato con la moglie di un altro?»
«No».
«Hai fatto uno sgarro a un collega?»
«No».
«Eppure devi concentrarti su questi aspetti, un motivo ci dev’essere!»
Secondo Antenore no, c’era dell’irrazionalità nell’accaduto: «Quella voce, stridula. I suoi passi che non ho udito. Come li spieghi?»
«Avevi paura, eri sconvolto… ma una cosa devi considerare: non ti ha chiamato per nome. Questo significa che il tipo era uno sconosciuto, sa chi sei, ma non come ti chiami. Hai fatto un torto a uno sconosciuto».
Remo era felice della conclusione, Antenore no.
«Fa uno sforzo e pensa: l’impronta c’era prima del tuo ingresso in casa?» incalzò l’amico « Mentre aprivi la porta l’impronta c’era?»
«Non lo so, ho guardato solo la maniglia, avevo fretta…»
«Secondo me c’era già. Hai detto che la voce l’hai sentita lungo la rampa, quindi vicino a casa. Prima ha bruciacchiato la porta e poi ti ha aspettato. Bisogna capire perché; a questo penserà l’Autorità. Fai denuncia e poi i Carabinieri troveranno il colpevole e il motivo».
Con quelle poche informazioni e i rilievi sul posto i Carabinieri diedero solo risposte vaghe ma erano concordi con l’amico Remo, non c’era niente di irrazionale. Antenore si sentì più tranquillo.
La notte la trascorse alternando riposo a risvegli improvvisi. Come da bambino, aveva tenuto la luce accesa, ma la notte filò via tranquilla, al mattino riprese le consuete attività e si recò al lavoro. Trascorse nella normalità anche i giorni successivi, tanto che in cuor suo lasciò cadere l’ipotesi dell’irrazionale e confido in una rapida risoluzione dell’inghippo da parte dei Carabinieri. Era certo che a breve l’ansia provata sarebbe mutata in un racconto per le serate tra amici, di quei racconti che catturano l’attenzione e non si sente volare una mosca. Tuttavia, come aveva suggerito Remo, prestò attenzione agli sguardi che incrociava, specie al lavoro, per carpire un particolare che potesse incolpare l’anonimo aggressore. Al momento non aveva notato niente di particolare.
Quella domenica sera, di uscita dal bar, chiese a Remo se poteva accompagnarlo a casa, la notte era limpida, ma gli stava crescendo dentro un’irrequietezza ripensando a quello che aveva vissuto la domenica precedente. Non aveva toccato alcol, solo bibite gassate. Remo acconsentì, senza lo sberleffo che normalmente un amico ti fa per ironizzare sulle paure, voleva tranquillizzarlo, non c’erano pericoli immaginari. La vita è matematica, calcolo, variabili a cui si può dare un valore e che portano a nuovi risultati, ma sempre calcoli restano. Non esistono draghi, elfi, orchi o fate, quello è il ricco e infinito mondo della fantasia racchiusa in quella massa grigia che chiamiamo cervello e che ci porta a vivere una maestosa illusione.
La scalinata era illuminata dai lampioni e dal firmamento, creando una bella suggestione medioevale: vivevano in un borgo unico e affascinante. Una coppia di turisti avrebbe letto quella visione come un invito al bacio. Loro si fermarono in prossimità della casa di Antenore, Remo si accese una sigaretta, in casa di Antenore era proibito fumare. Chiacchierarono ancora un po’, poi si congedarono; Remo aspettò che l’amico fosse dentro casa prima di prendere la via del ritorno.
Accese la luce del corridoio e chiuse con una doppia mandata. Sentì crescere l’ansia. Per vincerla iniziò a respirare profondamente, si ripeteva «Va tutto bene, non sta succedendo niente». Istintivamente prese il sasso con i papaveri dipinti e se lo tenne stretto. Accese le luci della cucina e andò al lavello per prendersi un bicchiere d’acqua. Dopo il primo passo dentro la cucina, la luce del corridoio si spense. Deglutì. «È solo una lampadina che si è bruciata! Tranquillo: il mondo è matematica!» si disse. L’anta del lavello si aprì e si chiuse da sola, sbattendo forte, quindi fece lo stesso la seconda, la copiò quella successiva, in una sequenza terrificante, facendo il giro di tutte la ante dei mobili della cucina. Terminato il giro sussultarono il tavolo e le sedie. Silenzio. Ripartirono le ante, questa volta in coppia, ripetendo la sequenza. Alla fine altro sussulto del tavolo e delle sedie. Antenore non aveva la forza per darsela a gambe. Il coltello grande, aveva bisogno del coltello grande, si girò verso lo scrittoio d’ingresso in quei giorni lo aveva sempre lasciato lì. Non c’era. Non se n’era accorto quando aveva preso il sasso: dov’era?
«Ehi, signore!» si sentì chiamare dalla cucina, seguito dalla macabra risatina.
Gli si bloccò il respiro: il coltello stava sospeso minaccioso all’altezza del suo viso, il tavolo li divideva. Le ante cominciarono a sbattere in maniera disordinata e il coltello si mosse verso di lui. Con la forza della sopravvivenza, uscì dalla cucina chiudendosi la porta, un colpo secco e la lama vi si conficcò. Tornò la luce nel corridoio, la lama era a una spanna dalla sua fronte.
«Chi sei? Fatti vedere!» urlò. Silenzio. «Chi sei?» ripeté con la voce tremolante. Silenzio.
Che cosa doveva fare? Dov’era più al sicuro? Fuori o dentro casa? Era uguale, si sentiva accerchiato, braccato. Diede la doppia mandata di apertura alla porta, se fosse servito scappare non avrebbe perso tempo. Chiamò Remo e gli chiese di correre subito da lui. La voce turbata fece scattare Remo che si presentò con la sua pistola.
Gli raccontò tutto, gli mostrò il coltello conficcato. Perlustrarono la casa, ma non trovarono niente di anomalo, le finestre erano tutte chiuse, non era entrato nessuno. Remo chiamò i Carabinieri.
Il maresciallo rimase perplesso dal racconto; chiese ad Antenore se aveva qualcuno che lo poteva ospitare qualche giorno, la casa sarebbe stata messa sotto sequestro per consentire gli esami della scientifica. Remo si offerse di ospitarlo. Prese un po’ di vestiti e quello che gli serviva per l’igiene poi lasciò le chiavi di casa al maresciallo. Due agenti piantonarono l’edificio.
Come se lo spiegava l’accaduto, adesso, forte della sua logica? Remo se ne stava zitto, lasciò che l’amico si sfogasse, ma era convinto che fosse nel bel mezzo di un esaurimento nervoso. Calmatosi, gli chiese particolari sul mondo del lavoro, sui rapporti con i famigliari, se aveva una relazione con qualcuna o se l’avesse troncata da poco. Era da tanto che non lo vedeva in compagnia di qualcuna, l’addio di Ada lo aveva colpito nel profondo, non si sentiva più interessato alla vita, però gli sembrava che stesse reagendo bene, almeno in apparenza, probabilmente in profondità viveva un magma di tormenti e di domande senza risposta. Antenore lo guardò in tralice: che cosa avevano a che fare quelle domande, quelle supposizioni con quello che stava vivendo? Lo credeva pazzo? No, assicurava Remo, ma una fase delicata della vita può generare mostri dentro la psiche, vie di fuga per non affrontare la realtà. Non credeva a cose inspiegabili e non credeva neppure che mancasse una spiegazione a quello che lui aveva vissuto, era certo che i Carabinieri sarebbero venuti a capo della questione. Poi, dopo una pausa breve, Remo prese coraggio e disse all’amico che forse era il caso che si facesse aiutare a superare quella fase delicata. Antenore, rassegnato e indignato, rispose che gli stava dando del pazzo. Non era così, lo rassicurava l’amico, non era quello che pensava. Era meglio dormirci su, era al sicuro, ora.
Le indagini della scientifica confermarono che nessuno era entrato in casa, nessuna impronta, segno di effrazione, niente di niente, ovunque non c’erano impronte digitali diverse da quelle di Antenore, erano le sole rinvenute sul coltello piantato nella porta.
«Per forza, nessuno lo stava tenendo, stava sospeso in aria!»
Il maresciallo lo stava ascoltando con commiserazione e probabilmente Antenore avrebbe fatto lo stesso se avesse ascoltato da un altro quel racconto. Gli venne ordinato dai Carabinieri di sottoporsi a una visita psicologica. Antenore andò su tutte le furie, era quella la loro conclusione? Era frutto della sua mente malata? Il maresciallo fu categorico: doveva sottoporsi a un controllo medico, lo avrebbero ricoverato, ne andava della riuscita delle indagini. Suo malgrado si trovò ricoverato in Psichiatria, così i medici avrebbero potuto fare tutti gli esami del caso. Nessuno pensava fosse pazzo, ma qualcosa era successo, volevano eliminare ogni dubbio sul fatto che quello che aveva visto o sentito partisse da lui stesso. La mente ha un potere inimmaginabile.
«Mi credete pazzo, questa è la verità e intanto quella cosa se la ride!» concludeva dopo ogni visita. Le pastiglie che gli davano controllavano la rabbia e gli lasciavano intatta la rassegnazione. I medici lo rassicuravano, credevano al suo racconto, ma dovevano capire la forza della sua mente, indagare se un’esperienza lo aveva segnato duramente e ora emergeva alterando il presente.
«Mi credete pazzo» ripeteva. Poi si stancò di ripeterlo. Rispondeva a comando ai vari test o incontri, per il resto del tempo se ne stava in silenzio, preoccupato che quella cosa entrasse liberamente in ospedale.
«Stia tranquillo, c’è un carabiniere qui per lei, ci sono i nostri infermieri, ci sono i sistemi di allarme, nessuno potrà entrare a suo piacimento».
Dopo qualche giorno di test e pasticche gli chiesero se aveva sentito ancora la voce. Rispose di no. Aveva visto mobili spostarsi o altre cose anomale? Rispose di no. Bene, le tre pasticche che gli passavano lo stavano aiutando. Doveva continuare la cura. Fino a quando? Fino a che sarà necessario. Da quanto tempo era ricoverato: due settimane? Di più? Aveva perso il conto, la monotonia dei giorni chiuso lì dentro lo stavano debilitando.
Quella notte stava dormendo profondamente, quando gli sembrò che qualcuno gli muovesse una spalla per svegliarlo. Aprì gli occhi a fatica, si sentiva intontito, probabilmente lo sedavano col sonnifero, cercò di mettere a fuoco la stanza semibuia, illuminata dalle luci bluastre di cortesia. Non c’era nessuno forse aveva sognato che qualcuno lo scuotesse. Faticava a tenere gli occhi aperti.
Poi improvvisa sentì quella voce satanica:
«Ehi, signore!»
Vide un cuscino precipitare con violenza sulla sua faccia e la risatina glaciale che continuava mentre lui provava a liberarsi dalla pressione del cuscino. Non riuscì più a trattenere il respiro, non poteva inspirare, sbatacchiava alla rinfusa braccia e gambe, erano gesti sconsiderati, disperati, atroci, poi più niente.
Foto di Francesca Stefani