Nelle grigie e fredde giornate di gennaio, la campagna giace in un silenzio d’attesa e d’incertezza, l’attività è ridotta al minimo, le fatiche si serbano per i giorni successivi al disgelo, quando la terra richiederà ancora l’attenzione e la dedizione di mani esperte per essere concimata, arata, seminata, con una cura ancestrale; il progresso e la meccanica hanno facilitato il compito, ma il sapere umano, quello di interpretare il cambio delle stagioni, agire al tempo dovuto, in sintonia con il moto di rotazione del pianeta intorno al Sole, è un’eredità tramandata da secoli, è il legame alle mani callose che ci hanno preceduto e che hanno vissuto la stessa attesa, assaporato gli stessi silenzi, sopportato le medesime fatiche, per poi abbandonarsi al ballo quando il raccolto ha premiato tanta attenzione e dedizione.
Il modo di lavorare è cambiato, ma il fine è sempre lo stesso, ringraziare la terra e il Creatore per le messi abbondanti che avevamo sperato e che a tempo debito hanno riempito i granai. Ma c’è una cosa che è rimasta immutata nel tempo, anch’essa legata a questo tempo freddo e silente di attesa e di speranza, un piatto semplice, povero, che a inizio gennaio in queste mie terre si consuma in condivisione, ripetendo il rito antico del falò. Quel rito propiziatorio dove cerchiamo ancor oggi il vaticinio per il prossimo raccolto; anche se il consumismo e la tecnologia hanno rimpicciolito questo mondo, tanto che puoi trovare sui banchi della spesa prodotti estivi in pieno inverno provenienti dall’altra parte del mondo o dallo stoccaggio dei prodotti in magazzini o dal calore indotto di una serra, chi è attaccato alla terra lo sa che questo non significa abbondanza, che gli anni magri ci sono stati e ci saranno, che bisogna essere accorti, rispettare la natura, accettare quello che ci offre, non sprecarlo. Il giorno prima dell’Epifania, a sera, le campagne sono un susseguirsi di falò, ci lasciamo riscaldare dal potente ed effimero calore, quasi con la speranza che il tempo buono, quando la natura sveglia e laboriosa ci consentirà ancora una volta di raccogliere i frutti della terra, arrivi presto. Invochiamo soprattutto che la terra sia fertile, generosa, ripetiamo versi antichi, filastrocche, che variano di zona in zona, ma tutte invocanti buoni auspici mentre si brucia la vècia, la vecchia, il tempo passato e in base alla direzione del fumo si cerca di capire se il prossimo raccolto sarà abbondante o meno. Non deve mancare lei però, la pinza. Un pezzo dobbiamo mangiarlo tutti, per rispetto alla tradizione, che poi significa ripetere un gesto antico, addolcire l’attesa con questo piatto povero, così come hanno fatto nei secoli le anime contadine che ci hanno preceduto. Un dolce che racchiude in sé l’alimento principale che ha contraddistinto questa terra: la polenta. La polenta bianca, propria di questa zona, elemento che ci contraddistingue, rispetto alle polente gialle che imperversano nel mondo. È lei l’impasto che lega i profumi e i sapori ricchi che vi si imprigionano durante la preparazione e che si tramutano in energia per rinfrancarci dal freddo quando li mangiamo: il fico secco, l’uvetta, il seme di finocchio, la scorza d’arancia, il burro, e poi varianti che si tramandano o si inventano al momento, anche solo per valorizzare dei resti che possiamo avere in casa, perché la pinza è innanzitutto questo, attenzione a non sprecare.
La pinza è un dolce che vince il tempo, dura giorni, quasi non voglia smettere di offrirci un momento di piacere, quasi una carezza quotidiana, l’abbraccio incoraggiante e fiducioso che i tempi che verranno saranno positivi, che la semplice dolcezza dei suoi ingredienti è niente in confronto a quello che ci attenderà: una profusione di colori e di profumi. Si accompagna con i vini che riposano nelle nostre botti; sono entrambi prodotti semplici, sinceri, millenari, privi degli artifici o delle complicate lavorazioni che possono solleticare palati che desiderano contraddistinguersi, emergere dalla folla, ostentare una fatua diversità di rango che a noi, semplici mangiatori di pinza, fa sorridere e abbiamo per costoro un sottile dispiacere: distinguersi da chi è perché? La pinza accomuna, affratella, spinge al canto, all’allegria, rappresenta il momento dolce e gioioso della purificazione che col fuoco del panevin invochiamo e ci attendiamo: diventare uomini e donne nuove. La pinza ci offre l’energia per intraprendere questo cambiamento, il bicchiere di vino allontana la paura, e come è stato sempre fatto, così sarà: affronteremo il tempo che verrà con nuova fiducia, con nuovo vigore, con il proposito di esserci, pronti a fare la nostra parte.