Intrusi a casa nostra

Avevo appuntamento con un tecnico di un’altra ditta per un lavoro congiunto presso una cooperativa, non immaginavamo di finire in un centro di accoglienza per profughi.
Il tecnico friulano, disorientato e preoccupato davanti alla marea nera, mi suggerì di dire a quelli della cooperativa che il lavoro non si poteva fare, mi autorizzava a inventare una giustificazione, dato che la sua opera era conseguente alla mia mi concedeva l’onore di dire il falso.
Ora, a raccontare che cos’è accaduto rischio di ricevere gli insulti delle tifoseria pro e contro immigrati, così darò le due versioni per confermare le loro convinzioni (e lì possono fermare la loro lettura), più la mia (che riceverà gli insulti di entrambe le fazioni).

Versione per i tifosi del “Buttiamoli a mare”.
Impressionante il disprezzo dei loro sguardi al nostro arrivo, all’arrivo di due Italiani del Nord. Musi africani per niente impauriti, sembravano dei lupi minacciosi che difendevano il loro territorio, gli intrusi eravamo noi, intrusi in casa nostra.
Non mi lasciai intimorire, questa è la terra dei miei avi, terra cristiana, così mi avvicinai al primo, avrà avuto una ventina d’anni, stava guardando sul suo I-Phone (ultimo modello) un filmato da youporn dove una donna caucasica doveva concedersi a cinque negri; rideva assieme a un suo pari e quest’ultimo esclamò in italiano (ovviamente perché dovevo capirlo io): «Bianche tutte puttane!». Lo guardai con disprezzo e mi  rivolsi all’altro: «Dov’è la sede della cooperativa?». Fingevano di non capirmi, le merde.
L’altro tecnico, cereo in viso, mi supplicava di lasciar perdere, di andare via. Andare via? Noi? I padani?
«Chi sei? Un frocio comunista?», gli chiesi a brutto muso.
«No, assolutamente no, sono un friulano».
«E allora dimostra la dignità e la laboriosità dei friulani, cazzo!», a quelle parole ritornò in sé, riacquistò il suo colore roseo e la forza smarrita. Non avevamo bisogno di loro, in qualche modo la sede della cooperativa l’avremmo trovata, bastava andare lì dove la schiera nera diradava, sicuramente se ne stavano lontani da dove si lavora e infatti dove i negri mancavano trovammo l’ingresso della sede. Due venete coordinate da un lombardo stavano smistando con professionalità, celerità e competenza un lavoro che dei terroni avrebbero terminato in un mese, mentre a loro stava bastando la mattinata. Spiegammo chi eravamo e il nostro compito, il coordinatore ci portò nella stanza dove dovevamo lavorare, ci diede delle chiare ed esaurienti indicazioni, ordinò ai negri di starci lontani e ci lasciò.
Eravamo nel salone dove una mega TV sintonizzata su Al Jazeera veniva seguita da una ventina di perditempo spaparanzati su divani e poltrone nuovi; uno di loro con un coltello stava bucando un divano della Poltrone&sofà.
Terminammo il nostro delicato lavoro con agilità e professionalità padana, solo allora ci accorgemmo che gli occhi dei negri presenti ci stavano guardando con ammirazione. «Se volete restare in Italia dovete lavorare», dissi loro. Mi guadarono impauriti: «No, io Germania», disse uno; «Io Canada», ribatté un altro. Mantenuti fancazzisti.
Ci recammo alla sede per avvisare della fine dei lavori, quando vedemmo alcuni di loro, certamente clandestini, che sul piazzale stavano strisciando le lasagne ricevute per pranzo, componendo la frase “Italia merda”. Provavo schifo, nient’altro che schifo.
Entrammo nella sede senza avvisare e beccammo le due venete e il lombardo che stavano contando pacchi di soldi seduti su dei sacchi, su cui erano disegnate la falce e il martello incrociati, pieni di dubloni. Ecco a che cosa servono i negri!

Versione per i tifosi del “Fratello mio!”
Impressionante la dignità e sorrisi con cui ci accolsero. Volti africani, emaciati, provati, con immagini terribili ancora vive negli occhi, non si risparmiavano a chiederci chi eravamo e di che cosa avevamo bisogno. La sede della cooperativa? Si divisero in due file per segnare il percorso e ci incamminammo nel mezzo. Un ragazzetto, forse quindicenne, si avvicinò e ci donò un mazzetto di fiori di campo. Qualcuno applaudiva, altri dicevano: «Grazie Italia!», uno si offrì di portarmi la borsa degli attrezzi.
«Non ce la faccio, per me è troppo», mi disse l’altro tecnico, «quanta dignità nella loro sofferenza, quanta speranza nei loro occhi, quando amore nei loro gesti, il mio cuore non regge, io torno indietro», e gli scivolò una lacrima.
«Siamo qui per migliorare loro la vita, questi fratelli hanno bisogno di noi, coraggio!» ribattei, ci abbracciammo tra gli applausi, il tecnico ritrovò la fiducia smarrita e proseguimmo.
Presso la sede un profumo di incenso al sandalo ci salutò assieme a una musica per la meditazione. Due ragazze, una cattolica e una induista, distribuivano serenità agli ospiti mentre lavoravano in armonia con l’Universo. Il coordinatore, maestro di Yoga, si premurò a stimolare i nostri Chakra per permetterci di assorbire ed espandere energia e quindi ci ha spiegato di che cosa avevano bisogno da noi.
Ci portò presso un salone dove da una TV alcuni stavano seguendo il Rosario da Lourdes, uno stava leggendo “Delitto e castigo” e un altro “La divina commedia”. Qualcuno chiese curioso in che cosa consisteva il nostro lavoro, era affascinato dagli attrezzi che usavamo, un altro ci confidava che voleva imparare il nostro mestiere. Ci raccontavano la loro storia, la loro epopea, fatta di soprusi, sofferenza e finalmente di riscatto.
Mentre tornammo presso la sede della cooperativa per avvertire che avevamo ultimato i lavori, vedemmo due africani che si dividevano una razione di lasagna, mentre ne avevano un’altra pronta. «Questa la portiamo alla vecchina che abita in quella casetta fatiscente laggiù. Vive con soli 400 euro di pensione, almeno le portiamo un pasto caldo».
Siamo all’alba di una nuova umanità!

La mia versione.
«Dai, inventa una balla e andiamo via», mi ripeteva l’altro tecnico, a disagio davanti a quella gente nera; mi stava appiccicato, troppo, tanto che il suo alito di fogne di Calcutta si frangeva sulle mie narici; più mi allontanavo, più mi marcava stretto.
Chiesi a un gruppetto di ragazzi dov’era la sede della cooperativa, non mi risposero, poi uno mi fece segno di aspettare. Arrivò con un bianco, che con cadenza russa mi chiese in italiano che cosa volevo. Mi indicò col dito la sede: «Vicino a dove c’è l’Audi scura».
Passammo tra gruppetti di africani, indiani, qualche bianco, qualcuno se ne stava seduto su un muretto a chiacchierare, persone tranquille.
Su alcune terrazze dei residenti della palazzina c’erano delle lenzuola con scritte contro il sindaco e il governo per la situazione di degrado che è sorta con l’avvento dei migranti.
Il coordinatore della cooperativa ci accompagnò nell’altra palazzina presso una stanza che in tempi normali doveva essere un negozio, mentre ora era una sala con solo un tavolo su cui c’era un televisore sintonizzato su Canale 5, con quattro o cinque persone sedute a terra o accovacciate a seguire il programma. Altri giovanotti camminavano lungo il portico della palazzina parlando al cellulare. Un paio pedalavano su delle vecchie mountain bike facendo in continuazione e con calma il giro dell’isolato.
Insomma dopo la mascherata di Salvini prima e della Meloni poi, si è fatto silenzio. Rimane il disagio di vedere tanti giovani a far niente su cui si legge in faccia la noia; non mi sono sembrati complottisti o malandrini che stanno architettando furti o assalti. Aspettano, tutto qui, sopportando il parcheggio a cui sono sottoposti, sapendo di essere malvisti da chi vive vicino, i quali ogni giorno devono sorbirsi uno spettacolo che, lo confesso, mette a disagio. Si vede gente stanca che cammina avanti e indietro aspettando che arrivi sera, impossibilitati di andare verso la loro meta, bloccati da una burocrazia e da una politica assassina dei forti d’Europa.

Servizio di LA7

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