Churrasco

I bambini sono dalla nonna, dormiranno da lei, e io e la mia signora ci stiamo riscoprendo fidanzatini in una casa misteriosamente silenziosa. Da quanto tempo non ci sentiamo così? Liberi e soli… si presenta una serata piccante… Ma lei mi chiede di uscire. Incredulo la guardo, non sta scherzando, vuole uscire. Io veramente ho altro per la testa, siamo soli, nessuno che ci disturba… Liquida la questione dandomi del fissato e ribadisce che vuole uscire, quindi devo pensare a qualcosa. Ma i miei pensieri sono tutti lì: io e lei abbracciati, abbandonati e felici nelle nostre effusioni. Così rilancio: «Proponi tu».

Il pomeriggio ci sta lasciando e la proposta non arriva, bene, il mio programma sta riprendendo quota! E invece lei se ne esce con: «Avrei voglia di ciurrasco».

Sconfitto, so solo dirle: «Si pronuncia sciuhhascu».

Mi risponde che sono un pedante, però il pedante dal sogno infranto si ricorda che dall’inizio dell’Estate hanno aperto in paese una churrascaria, in un luogo indecente, dove il mio spirito si sente a disagio al solo pensiero di dover andarci, ma per far contenta la signora…

Saliamo in macchina con destinazione la nuova churrascaria aperta in questo nostro piccolo paese affacciato sull’alto del mare Adriatico, a cui hanno appiccicato il titolo di città per meriti turistici, e di questo quasi tutti i miei compaesani, chiedo scusa, concittadini, ne vanno fieri. Cavolo, occupiamo i posti alti della classifica delle spiagge d’Italia, siamo sempre sul podio, come ormai mi sento ripetere da quando sono nato (che poi sia vero, è un altro conto). Ma per quale merito? Per bellezza? Per ospitalità? Per cortesia? No, ci stiamo per numero di turisti.

È un paese dove la Storia non ha lasciato segni importanti, cresciuto dopo la seconda guerra mondiale con una voracità urbanistica spaventosa, selvaggia, alberghi e pensioni sempre più vicine al mare, stradine strette per non rubare spazio alle costruzioni e, di anno in anno, è riuscita a diventare una spiaggia di massa. Non siamo stati orgogliosi dello scempio avvenuto in assenza di un piano regolatore, tuttavia non abbiamo imparato niente dagli errori del passato, in questi ultimi dieci anni l’amministrazione comunale sta realizzando quanto più di becero sia stato proposto negli anni precedenti per raggiungere il primo posto. Le linee guida del nuovo volto della spiaggia le aveva indicate un architetto famoso arrivato dall’Estremo Oriente, vedendo il paese ha desistito dal fare karakiri e ha detto: «Buttate giù i tanti piccoli obbrobri e costruite in grande e meglio, in modo da lasciare ampi spazi per le piazze e che si veda il mare».

Solo che qui non hanno buttato niente e hanno accolto l’idea di costruire in grande, se poi sarà meglio… ha poca importanza. Così oggi ogni briciolo di terra è stato urbanizzato, si costruiscono condomini con appartamenti dagli spazi minimi (mi pare che l’intenzione sia di non farti godere la vita casalinga, ma spingerti a lasciare quegli spazi angusti alla ricerca di altri più grandi, tipo i centri commerciali); grattacieli che propongono la nuova visione turistica della città (ne stanno costruendo diversi, anche le torri gemelle, non assomigliano a quelle abbattute a New York, sembrano due shuttle); e tanti centri commerciali… cemento armato in ogni dove… e io che all’inizio degli anni novanta, da bravo ambientalista impegnato in politica, andavo a dire che il turista veniva da noi per cercare il sole e il verde… che babbeo! Non avevo capito niente di ciò che desidera chi si reca al mare, vuole solo bei grattacieli e centri commerciali! È stato un bene che la mia carriera politica l’abbia troncata tanto tempo fa, chissà quanti danni avrei fatto!

Ebbene la churrascaria si trova in uno dei nuovi centri commerciali. Un centro innovativo, non il gigantesco parallelepipedo chiuso, ma più parallelepipedi, messi su piani sfalsati, collegati da larghe scalinate che si aprono su ampi spazi aperti, che dovrebbero ricordare una piazza, offrendo la possibilità di passeggiare sotto il bel sole estivo o sotto la luna dalla debole luce vinta dai fari e dalle insegne delle attività commerciali. Questo è il progresso, questa è la modernità!

Mi irrita trovarmi qui, ma la saudade del churrasco ha avuto la meglio. Churrasco, in qualche misura, vuol dire Brasile, e il Brasile si è rubato una parte del mio cuore. Quando ripenso al Brasile, i miei ricordi sono per i volti, per i meninos de rua e per coloro che tentavano e tentano di dare loro una possibilità di riscatto; per il volto africano di Bahia, per la cordialità di Corina e il suo immenso amore per il suo popolo sofferente; per l’assentamento dei Sem Terra e la vecchia Bibiu che mi mostrava orgogliosa il cacao che producevano; per le famiglie che dormivano sotto i grattacieli della grande Finanza, riparati solo con dei cartoni; per le percussioni che i giovani suonavano al posto della chitarra; per la festa del boi bumbà e il mio tifo per o boi Garantido; per la sensualità delle brasiliane quando ballano a dieci, venti o settant’anni; per la disumanità della favela; per i bambini che sniffavano colla lungo le strade e l’aggressività dei poliziotti verso tutti; per il selvaggio Pantanal dalla natura ambivalente che io ho conosciuto nella sua siccità… e poi tutte le mani che ho stretto e gli amici di laggiù. Dicono, ma per me la verità è altra, che il Brasile sia un paese pieno di contraddizioni, per cui, in apparenza, non sto sbagliando a dare spazio alla mia saudade in un luogo che detesto.

Riesco a parcheggiare vicino alle enormi scale che dobbiamo salire per entrare nella grande cattedrale del consumismo l’Alto Adriatico shopping center (un’attinenza con la zona la dovevano pur trovare, no?).

Guadagnato il piano rialzato, passata la concessionaria di auto giapponesi, dopo un bar, un negozio di abbigliamento, un venditore di cianfrusaglie inutili a un euro, una porta ci invita a salire al piano superiore al churrasco.

Sulla porta c’è il menù dei vini che recita:

O nosso vinho tinto:

Cabernet… €x,xx

Merlot … €x,xx

Refosco … €x,xx

…..”

O nosso vinho branco:

Chardonay… €x,xx

Pinot … €x,xx

Verduzzo … €x,xx

……”

insomma poco di brasiliano, però entriamo.

Mi aspettavo un locale caldo, accogliente, popolare, sperando di rivedere un pezzo do meu Brasil, i colori, l’allegria, invece entriamo in un ampio salone color ouro, ouro alle pareti, ouro il pavimento con degli spruzzi più accesi che ricordano le stelle della bandiera. E poi i tavoli e le sedie… tanti bei troni pomposi rubati alla corte di qualche re, troni rococò.

I camerieri, vestiti di nero, ci vengono incontro con cordialità e, con i loro suoni nasali, ci invitano ad accomodarci e ci spiegano di servirci liberamente al buffet e poi loro passeranno con la carne. Ci propongono un tavolo per due, io vedo la vetrata che mi offre il mondo esterno, uno schifo di veduta, per me, rozzo contadino.

Ma che ha di brasiliano questo luogo tolto il cibo e il suono nasale delle voci dei camerieri? È questo che vuole offrire di sé il brasiliano medio? L’idea che il Brasile sia l’opulenza del fazendeiro? Mi trovo a disagio seduto su questo trono, in questo ambiente freddo, ascoltando questa musica d’atmosfera, a parte questa canzone che, se non sbaglio, è Zé Geraldo, ma sicuramente mi sto sbagliando, che ci fa Zé Geraldo, con le sue parole che cantano l’ingiustizia, tra i fazendeiros?

Mi guardo intorno e mi ritornano in mente le parole che tempo prima mi aveva scritto un mio amico di São Paulo, dove mi raccontava della decadenza che si vive anche lì, grandi colate di cemento scaccia miserabili, e gli ambienti tutti uguali, li arredano in un modo che non si capisce se si è entrati in un ristorante o in un bordello. Adesso riesco a cogliere il senso delle sue parole. Essere qui o a São Paulo non cambia molto.

A chi può piacere un luogo del genere? Mia moglie mi indica i vicini dicendomi che a loro sicuramente piace. Dai discorsi intuisco che sono degli albergatori, e dalla classe che dimostrano, se l’albergo li rappresenta, non deve essere un gran che. Non riesco a staccare gli occhi dal gesto ributtante dell’uomo, gesto che ripeterà durante la serata; con dei modi sopraffini, si infila in bocca l’indice per pulirsi con l’unghia la carne rimastagli tra i denti e lo spinge in fondo alla bocca per cercare altro cibo fermo chissà dove, per poi estrarre il dito ciucciandolo, e masticando quanto raccolto.

Guardo altrove, oltre la vetrata, ma neppure quella mi sta aiutando, l’oscurità, con calma e regolarità, è arrivata e le luci esterne hanno preso il sopravvento sul buio. A destra vedo lontane le luci del luna park con la ruota panoramica che domina su tutte le giostre. Al centro vedo la concessionaria di auto giapponesi e davanti a lei due palme, per dare un tocco di esotico, che sbucano chissà come da un buco scavato nel cemento. E alla sinistra, stampato nel cielo, il simbolo primo della società consumista. Il suo logo mi riporta alla mente l’ingresso del sambodromo di Rio, ha la stessa forma, quella del sedere della donna, secondo l’idea dell’architetto, e quella M stilizzata, per me, sta a indicare che è un ristorante dove si mangiano prodotti di merda, ma i miei figli l’adorano: panini gonfi di salse, patatine fritte e bibita gassata, che pranzo! Sullo sfondo, come collante alle mie tre visioni, le luci del traffico.

Però che piacere gustarsi, dopo tanto tempo, l’arroz e feijoens, la farofa, la mandioca fritta, la picanha e molto altro. Com’è divertente aspettare i camerieri che arrivano con la carne infilzata nel grande spiedo e te ne tagliano una porzione sul piatto. Solo la cucina sta facendo onore al meu Brasil. Non certo il prezzo, da fazendeiro!

Mentre usciamo la mia signora mi dice che le sembra sbagliato il nome scelto per l’ambiente: Gnu.

“Gli gnu non sono africani?”

“Sì, ma in questo caso è il cognome del proprietario!”, non mi pare convinta.

Come sta diventando tutto uguale il mondo, grigio, imbecille, preconfezionato. Dove la diversità si presume sia solo una pietanza e si dimentica che è storia, cultura, rapporti, fatica, odori, abbracci, sorrisi; disuguaglianza e voglia di riscatto; sopraffazione e fiducia nel futuro; l’architetto che disegna, il politico che rinnova; il sem terra che coltiva, il poliziotto che picchia; il menino affamato che sniffa, i bagnanti in discoteca e io, col mio cronico mal di schiena, che fingo di star bene.

Settembre 2009

Con questo racconto ho partecipato a un concorso nel 2009.

È nato da uno scambio epistolare tra me e un amico di San Paolo, dove avevo raccontato la triste esperienza che avete letto.

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