Ho sognato che mi cadevano i denti (3 di 6)

Rinaldo – parte seconda

Poi con l’arrivo dell’adolescenza e dell’età matura ci si vedeva sempre meno, in genere rubavano un’ora alle loro ferie per venirci a trovare, niente di  più. Noi in ferie non c’eravamo mai andati. Vivendo in una zona balneare non esisteva l’estate, esisteva la “stagione”; l’anno noi lo suddividiamo in Primavera, Stagione, Autunno, Inverno. Stagione significa il periodo del lavoro, trovarne uno, averel’occasione per poter portare a casa dei soldi. E nel rimanente periodo dell’anno te ne stai a casa, mica ci si fa ricchi se non si è proprietari di un’attività, e noi non lo eravamo.
La loro vita proseguiva tranquilla, lavoravano tutti e tre, quindi problemi finanziari non ce n’erano, bastava e avanzava la condizione di mio cugino per non essere felici. Mi era capitato di fare loro un paio di visite quando, per lavoro, ero rimasto per un mese e mezzo a Milano. Insomma nessuno sapeva più niente dell’altro, si sapeva solo che eravamo parenti.

Gli zii avevano pensato più volte a quale futuro dare al figlio dopo la loro morte: chi se ne sarebbe preso cura? Loro vedevano il traguardo della pensione sempre più vicino, quindi anche i loro anni da vivere si stavano riducendo. Probabilmente ci pensava più la zia, aveva girato per istituti, aveva consultato i responsabili per poter capire in che modo Rinaldo avesse potuto vivere senza sentirsi un ricoverato ma una persona libera, magari ospitandolo e offrirgli dei lavoretti semplici, un aiuto dell’aiuto custode.
Ma la soluzione zia non aveva potuto trovarla. Il caso aveva pensato a scombinarle le carte. Era uscito col marito, il figlio era solo in casa, dovevano recarsi presso un’agenzia viaggi per prenotare una vacanza chissà dove.
Avevano viaggiato molto e Rinaldo aveva potuto conoscere tanto del mondo, o meglio, aveva assorbito e catalogato molte esperienze, peccato non avesse avuto la capacità di elaborarle.
Era stato anche in Turchia. Con loro era partito pure un altro zio con relativa consorte. Erano in un negozio ma non riuscivano a capirsi con il negoziante. Quest’ultimo allora aveva parlato loro in inglese, ma gli zii si guardavano l’un l’altro chiedendosi vicendevolmente se avevano capito qualcosa. No, nessuno aveva capito, così se ne andarono. Per strada si lamentavano della loro ignoranza e di quanto fosse importante conoscere l’inglese. Poi il padre si era rivolto al figlio: «Rinaldo, tu a scuola hai studiato l’inglese, non hai capito neanche tu quello che ha detto il signore?»
«Sì, ha detto questo, questo e questo.»
«Ma perché non ce l’hai detto?»
«Non me l’avete chiesto!»
E già, nella sua mente aveva anche catalogato l’informazione che quando i grandi parlano non li si disturba.
Però quel giorno in agenzia viaggi gli zii non erano riusciti ad arrivarci, una mancata precedenza a un incrocio, uno schianto violento e le lamiere accartocciate  avevano allarmato e richiamato la gente vicina.
I vigili erano andati all’indirizzo scritto sui documenti e avevano bussato alla porta. Aveva loro aperto un uomo sui trent’anni, sì, era il figlio delle persone da loro citate.
«Dobbiamo darle una brutta notizia, c’è stato un incidente: sua madre è morta, mentre suo padre è gravissimo all’ospedale». E adesso arrangiati, uomo di trent’anni.
I fratelli dello zio si erano attivati subito, a periodi alterni partivano dall’est del Veneto, da Ceggia, per raggiungere l’ovest della Lombardia, Castellanza, sia per accudire Rinaldo, sia per  assistere il fratello. Per fortuna i nonni avevano osservato puntualmente le direttive di Mussolini che voleva tanti figli e loro ne avevano sfornati nove, due femmine e sette maschi.  Al tempo dei fatti all’appello ne mancavano due, il più vecchio e mio padre, divorati entrambi dal solito male.
Quando lo zio era tornato a casa dall’ospedale, avevano dovuto pensare a una soluzione per gestire la nuova realtà;  padre e figlio avevano bisogno di cure e nessuno poteva sobbarcarsi per anni l’idea di pendolare dalla provincia di Venezia a quella di Varese, avevano tutti lavoro e famiglia. Dovevano tornare al paese, vicino ai fratelli. Lui era in pensione e a Rinaldo un lavoro in qualche modo lo si trovava. Lo zio era scettico, non era semplice trovare lavoro a Rinaldo. Ma da qualche parte avrebbero avuto bisogno di un magazziniere, dalle loro parti stavano spuntando capannoni come funghi.

Così avevano venduto tutto e si erano trasferiti in un appartamento in centro a Ceggia che distava a meno di un chilometro dalle case di quattro fratelli, così a turno le zie andavano ad accudirli.
Rinaldo era cagionevole di salute, problemi renali, aveva bisogno di visite, andava seguito. Andava seguito anche in casa, zia Riccarda li aveva viziati per bene, non erano autonomi in niente.
Una zia aveva ordinato a Rinaldo di lavarsi i piatti, acqua tiepida, del detersivo per i piatti, questo, li passava con una spugna, poi li sciacquava e li riponeva, le posate prima di riporle andavano asciugate con un canovaccio e poi riposte in ordine. Capito? Bene, lei se ne era ritornata a casa e sarebbe tornata alla sera per preparare loro la cena. Quella sera si era trovata la cucina tutta  schiumata e Rinaldo incapace a riparare il danno. Lei aveva avuto un fratello con problemi simili, così era andata a cercare l’atavica pazienza e, dopo aver pulito, aveva ridato le indicazioni corrette. Le aveva trovato un misurino, quella era la quantità di detersivo che doveva versare, non mezzo flacone.  Un programmatore informatico sarebbe stata la persona ideale per spiegargli le cose, considera tutte le variabili e a ogni condizione detta le soluzioni, non lascia niente al caso, altrimenti il computer può andare in errore. Così era Rinaldo, o le notizie erano chiare e complete, e allora c’era un discreto margine di successo, oppure l’errore, con i disastri che ne conseguivano, era certo.

L’unica volta che Rinaldo aveva dato dimostrazione di avere più intelligenza degli altri era stato quando il padre aveva deciso di trasferire la salma della moglie da Castellanza a Ceggia. Anche i fratelli erano concordi. L’unico che non si dava pace era lui. Tra le sue caratteristiche la più evidente era la tirchieria, ti dava l’anima ma non i soldi. Saputo che il trasferimento sarebbe costato quindicimilioni di lire, aveva dato dei pazzi a tutti, insisteva che era una cosa senza senso, e gli altri ridevano pensando alla sua tirchieria. E io sono sempre stato d’accordo con lui: perché buttare quindicimilioni per trasferire una cassa di legno che conteneva ossa e vermi? La madre lui ce l’aveva sempre vicina, forse quando qualche zia lo richiamava sentiva ancora nella sua testa: «Uè, giovanotto!»

Però il nuovo equilibrio trovato, la nuova casa, l’aiuto condiviso delle parenti che vivevano vicino era stato messo in subbuglio dal male, dal solito male, quello che non perdona, che non ha pietà, che non ha rimedio. Zio Giulio era entrato nella già ben nutrita lista familiare di coloro che avevano il brutto male, che ci fa così tanta paura da non riuscire a dire il nome.
Prima di morire zio Giulio aveva strappato la promessa al fratello più giovane che si sarebbe occupato del figlio, che non lo avrebbe spedito in un istituto, che non lo avrebbe permesso, avevano molti risparmi, avevano l’appartamento, non glielo lasciava nudo. E Rinaldo, in poco tempo, si era trovato solo, privo dei suoi sicuri riferimenti, il suo mondo doveva essere tutto ricostruito.

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