Scese dall’autobus alla fermata centrale del paese. Stava sopraggiungendo la sera e una lieve foschia stanziava insopportabile, l’umidità filtrava nel pastrano, s’infilava nel maglione, trafiggeva la pelle e si posava come una muffa gelida sulle ossa. Non la sopportava. L’autobus ripartì spruzzando incurante una scia di puzzolente fumo nero che andò a mischiarsi con la nebbia restando immobile ad altezza di naso per farsi respirare. Rimaneva una manciata di minuti di luce così si mise a camminare di buona lena, aveva qualche chilometro da percorrere prima di arrivare a casa, una vecchia casa colonica, che aveva conosciuto tempi migliori e aveva accolto tra le sue mura moltissime persone. Ora erano rimasti lui, la vecchia grossa madre acciaccata, che di certo se ne stava vicino alla stufa a preparare una cena con la televisione accesa su qualche canale di pettegolezzi, mentre l’esile padre, scavato alle guance e dalle mani forti e segnate dalle intemperie e dal lavoro, probabilmente aveva terminato di sfamare il pollame e col vecchio bastardino vicino stava mettendo via degli attrezzi o stava riempiendo il grande cesto in vimini con la legna sufficiente per la sera. Abitudini che se vietate per un motivo qualsiasi avrebbero equivalso a una condanna a morte, pensava il figlio mentre percorreva la via del ritorno.
Il paesino era alle sue spalle, le case si facevano rade. I lampioni si erano accesi, fioche luci che indicavano la via. Per accorciare la strada pensò di percorrere una carrabile di una vigna che conosceva bene che poi si sarebbe ristretta in una cavedagna di campi arati, la temperatura rigida aveva indurito il terreno e lo aveva reso calpestabile e gli avrebbe fatto risparmiare una ventina di minuti, molto graditi visto il fastidio della nebbia e dell’umidità, già pensava al tepore di casa.
Dopo un po’ si pentì della scelta fatta: la nebbia tra i campi era più fitta e il buio accentuava i pericoli. Il percorso lo conosceva bene, ma praticarlo in quelle condizioni era da allocchi. Per fortuna la tecnologia lo aiutò. Aveva ancora il 30% di batteria del cellulare e attivò la funzione torcia. La luce lo rassicurò un po’.
Quel misero fascio di luce opalescente si esauriva a un passo davanti a lui; si girò su se stesso, era avvolto da una densa oscurità, sapeva che c’erano le vigne, i campi arati, ma una leggera ansia cominciò a far breccia e a incupirgli i pensieri.
Camminava e inveiva contro la sua dabbenaggine, ma si poteva essere più imbecilli? Solo lui poteva pensare a scorciatoie perse tra il buio e la nebbia.
Si sentiva osservato. Da chi? Forse da una nutria, pensò per sdrammatizzare. A quarantatré anni si stava autosuggestionando, diceva a se stesso di non essere ridicolo. Però la testa e la torcia ogni tanto si spostavano a destra e sinistra per poi tornare a guardare avanti. Quindi con uno scatto improvviso guardava dietro a sé: nessuno. E chi poteva esserci? Con quel freddo tutti erano chiusi nelle loro calde case o in automobili confortevoli, non in mezzo a dei campi arati. Però, l’inquietudine non diminuiva, per quanto si concentrasse in ragionamenti, la solitudine, il freddo e il silenzio avevano la meglio sul suo umore e la torcia nevroticamente cercava delle misteriose presenze tutt’intorno.
Finalmente illuminò la robinia, aveva supposto di incontrarla prima, probabilmente il freddo lo faceva camminare più lento. Il freddo o la paura? Non volle rispondere alla domanda. La robinia era a un crocevia, doveva girare a sinistra, prendere la strada carraia che lambiva il canalone e proseguire, poi avrebbe trovato di traverso la vecchia linea ferroviaria che serviva per rifornire la fabbrica ormai dismessa del paese, infine gli ultimi sette-ottocento metri e avrebbe raggiunto casa. La fabbrica dismessa era da quarant’anni fonte delle proposte politiche più disparate per pensare a un recupero dell’edificio e a un suo cambio d’uso, ma i quarant’anni di inattività l’avevano ormai destinata a un rovinoso decadimento e i costi da sostenere per recuperarla contribuivano a lasciarla andare al suo destino. Diventava utile solo in campagna elettorale, per costruirvi fantasie e promesse di posti di lavoro. Faceva queste elucubrazioni solo per allontanare la paura, si sentiva osservato, aveva l’impressione che qualcuno potesse aggredirlo alle spalle. Sapeva che era un’idea stupida, ma il cuore batteva più del dovuto. E la strada si faceva incredibilmente lunga, si lamentava del suo passo lento e del freddo.
Mise male un piede, forse aveva trovato una buca, sentì un dolore alla caviglia e cadde. Era in prossimità della riva del canalone, il cellulare gli scappò di mano e scivolò lungo l’argine. La luce della torcia gli permise di recuperarlo, ma era andato ben giù, per fortuna senza finire in acqua.
Si sentiva le gambe rigide, aveva voglia di piangere, non si alzò, si allungò lungo la discesa per riprendere il cellulare. Strisciò un po’ pancia a terra, non molto, ma riuscì a rimpossessarsene, a quel punto si accomodò seduto e iniziò a sacramentare, più per paura che per rabbia, voleva gridare: «Aiuto!», ma chi lo avrebbe mai sentito?
Fece luce per vedere dov’era caduto, aveva messo il piede su un’impronta di una scarpa più grande della sua e molto profonda.
Tremava, non aveva il coraggio di alzarsi, ma il freddo e l’umidità richiedevano che si rimettesse subito in piedi. Per alzarsi fece luce tutt’intorno, allarmato. Era solo. Disse a se stesso di calmarsi, fece dei respiri profondi, provò a muovere il piede, gli doleva, poi rimandò la luce sull’impronta. Era di uno scarpone. Il cuore batteva forte e i respiri che gli riempivano la pancia non servivano a calmarlo, doveva minzionare, ma si tratteneva, voleva rincasare. Cercò altre impronte. Non ce n’erano. Solo quella. Pareva fresca. Che cosa doveva fare? Non aveva scelte. Il piede gli faceva male, doveva resistere solo per un paio di chilometri. Doveva fregarsene della paura, era una sciocca suggestione, si trovava tra i campi arati e a breve avrebbe passato le rotaie della linea dismessa. Poi sarebbero bastati dieci, quindici minuti se camminava male e avrebbe trovato luce e tepore.
Canticchiò una canzoncina e procedette. La luce del cellulare tremava. Tremava la sua mano, non per il freddo e lo sapeva. Cercò una canzoncina scema, di quelle estive, sembrava fare effetto, muoveva le spalle come per accennare a un ballo, gesti minimi, che il piede ne risentiva, voleva ingannare se stesso per non pensare. Camminò per una decina di minuti, ormai doveva essere prossimo alla ferrovia, si raccomandava da solo di non mettere i piedi sopra i binari, probabilmente erano scivolosi e la caduta l’aveva già fatta. Provò a ridacchiare, invece diventò di ghiaccio, era sbiancato in volto, davanti a sé non aveva la linea ferroviaria, ma la robinia e sulla sinistra la strada carraia con il canalone. Com’era possibile?
Il cuore batteva alle tempie, sudava. Doveva calmarsi, ragionare. Probabilmente, con tutte le idee cretine che gli erano passate per la testa, non si era accorto di essere tornato indietro, probabilmente era successo dopo la caduta. Sì, era così, non poteva essere che così. Ma chi stava prendendo in giro? Il canalone era sempre stato a destra, se fosse tornato indietro lo avrebbe avuto a sinistra, e la robinia ora la vedrebbe da un’altra angolatura, invece era tornato indietro come nel gioco dell’oca quando si cade nella casella 42, il labirinto, e si torna alla casella da dove si è partiti. Che cosa stava accadendo? Era una pedina? E chi lo stava muovendo? Diceva a se stesso di farsi coraggio, ma voleva gridare.
Un brivido gli corse lungo la schiena quando gli venne in mente un racconto dei nonni. Dicevano che avevano conosciuto delle persone che di notte avevano messo il piede nell’impronta del diavolo e avevano perso l’orientamento, non erano più riuscite a tornare a casa. Lui aveva riso di quel racconto, rispondendo che quei tali erano di ritorno dall’osteria talmente ubriachi da non ricordarsi la via di casa. I nonni invece erano rimasti seri, non doveva scherzare su quelle cose.
Ora non rideva più. Era vero. Probabilmente l’impronta… ma… un momento… se era l’impronta del diavolo non dovrebbe essere stata uno zoccolo di capra? Già è così, lui era caduto su un’impronta umana. Ma come si spiegava la robinia davanti? Non se la spiegava. Tremava. Che cosa poteva fare? Riprese la carraia a sinistra e ripercorse la via.
Si sentiva osservato, non era solo. La batteria era ridotta al 20%. Doveva spegnere la torcia per risparmiare? Poteva farlo, tanto doveva andare dritto. La spense e si trovò immerso nel buio. Ebbe una sensazione di panico, la riaccese. Camminava e piangeva. Si teneva alla distanza di un metro dall’argine, per non ricadere nell’impronta. Camminava piano, aveva dolore alla caviglia.
Si sentiva una preda vinta. La luce si smorzava nella nebbia sempre più fitta, ora vedeva a meno di un passo. L’aggressore poteva scagliarsi su di lui in qualsiasi momento, non avrebbe reagito, solo urlato di paura.
Tornò a vedere l’impronta. Ormai doveva essere prossimo alla ferrovia, ne era certo, i tempi, anche se stava procedendo con passo lento, erano quelli, ormai doveva essere prossimo. Ancora qualche minuto e poi… Non voleva crederci, si sentì svuotato e si accasciò a terra, davanti alla robinia.
«Fai quello che vuoi, basta che tu lo faccia in fretta!», gridò.
Rimase con il volto a terra, in attesa. I minuti passavano, la batteria era al 15%.
«Ti stai divertendo, vero?», piangeva, ma nessuno rispose.
«Va bene, ricomincio», si asciugò le lacrime e si alzò.
Riprese la carraia a sinistra. Anche se il piede gli doleva, provò a tenere un passo spedito, claudicante ma spedito. Forse con la velocità sarebbe uscito dall’impasse. Si era attaccato a quella speranza e ogni tanto il passo veloce mutava in una corsa, ma il dolore lo obbligava a fermarsi, solo un attimo, non poteva permettersi certi lussi, e ripartiva a passo lesto. Ecco l’impronta, allora avanti, svelto, svelto, la ferrovia doveva essere vicina, vicinissima. E non aveva mai girato, sempre diritto, com’era diritto quel canalone artificiale, avanti, doveva esserci quasi, entro breve la strada avrebbe accennato a una piccola salita e sopra avrebbe trovato i binari. Li conosceva benissimo quei campi, ci aveva giocato da bambino e ora aiutava il padre a coltivarli, non c’erano segreti, la ferrovia era lì a due passi.
Si fermò, sfiduciato. Era davanti alla robinia. Batteria al 10%. Prese l’ultima decisione, sarebbe tornato sui suoi passi, sarebbe tornato verso la strada d’asfalto e da lì sarebbe tornato a casa, come avrebbe dovuto fare dall’inizio, senza scorciatoie.
Girò le spalle all’albero e si incamminò verso il paese. Non era a più di un chilometro e anche se era acciaccato quanto ci avrebbe impiegato: venti minuti? Batteria al 9%. Respirò profondamente, doveva trovare la calma, stava prendendo la decisione giusta, presto quell’incubo sarebbe finito.
Avrebbe rivisto le case che davano sulla via principale; dove c’erano le case la nebbia doveva essere diradata, sarebbe tornato alla civiltà, qualche cane avrebbe abbaiato sentendolo, che idea sciocca aveva avuto, ma ora aveva preso la decisione giusta, ancora poco e sarebbe stato a casa, un bagno caldo, una pomata sulla caviglia e una buona cena lo attendevano. Se il mattino dopo gli avesse fatto ancora male sarebbe andato all’ospedale, sarebbe servita una radiografia, forse era solo slogato, con una frattura non avrebbe certo camminato. Qualche giorno di riposo, delle sedute di fisioterapia e giorno dopo giorno tutto questo sarebbe diventato un lontano ricordo che non avrebbe raccontato a nessuno. Ormai doveva esserci, il rumore lontano di un’automobile lo avrebbe rincuorato, ma regnava ancora il silenzio, udiva solo il suo respiro affannoso, però non doveva mancarci molto alla strada.
Si fermò, deglutì. Aveva davanti a sé la robinia.
La batteria era al 5%. Mandò un messaggio a un amico, dicendogli dove avrebbero trovato il suo corpo e lo ringraziò per l’affetto. Spense il cellulare, non voleva leggere la risposta. Forse l’amico avrebbe organizzato un gruppo di volontari per andarlo a cercare, ma lo sapeva che sarebbero arrivati tardi, quell’entità che si stava prendendo gioco di lui si sarebbe presto manifestata. Non gli interessava più niente, non gli interessavano i soccorsi e non gli interessava neppure sapere chi si stava prendendo gioco di lui. Si coricò tremante sotto la robinia e attese.