C’è due volte il Brasile

Questa sera ho partecipato all’inaugurazione dello stand della Fanfara dei Bersaglieri di San Donà di Piave, che si svolge in occasione della Fiera del Rosario.

Ormai lo stand si è aperto un varco all’interno della Fiera, una sua breccia di Porta Pia. Non c’è Fiera del Rosario (che poi è una fiera pluricentenaria dedicata all’agricoltura) senza una capatina presso lo stand dei Bersaglieri per mangiare il baccalà o la trippa. L’offerta culinaria è più ampia, ma il baccalà e la trippa sono la fiera.

All’apertura, dove invitano i soci, da più di dieci anni hanno deciso di aprire alla cultura, alle espressioni locali nello specifico. Perché l’uomo non è fatto solo per la trippa o per il baccalà.

Quest’anno hanno invitato il pittore Gigi Toccane, di cui ho apprezzato il tocco, la capacità di trasmettere i colori e le sensazioni delle stagioni. Davanti alla decina di opere proposte, ho respirato la fresca aria dei boschi, la tranquillità e la serenità che gli alberi mi infondono in ogni stagione, sia quando sono spogli, sia quando propongono la nuova chioma, sia quando esplodono nel loro verde intenso, sia nei rossicci e marroncini dell’autunno. Nelle sue pennellate ho respirato pace e gioia.

Per la parte letteraria hanno chiamato me. E io, da bravo marchettaro, ho risposto. Il libro l’ho pubblicato perché venga letto e avendolo pubblicato con una piccola ma nobile, seria (e non è poco oggi) casa editrice, le Edizioni Creativa, devo fare la mia parte per divulgarlo. Insomma, faccio marchette.

Presentarlo nel brusio di un capannone, tra gente che mastica e chiacchiera non è stato facile. Il tempo era contigentato, non più di un quarto d’ora. Poi dovevano suonare i giovani della Fanfara. Ma è andata bene. Ho scritto dediche e firmato libri.

Ma non è di questo che voglio parlare.

Mentre attendevo mi sono messo a chiacchierare con il signor Ennio, componente della fanfara, colui che mi ha contattato. Abbiamo parlato del Brasile, loro c’erano stati in tourneè nel 2006 e all’inizio del 2011 ci torneranno. Mi ha raccontato i progetti, gli incontri, le storie. Sapeva che anch’io ho un debole per il Brasile, sapeva di Macondo, è scritto nella quarta di copertina.

Solo che il mio Brasile e il suo non hanno niente da condividere. Loro hanno girato e gireranno il Rio Grande do Sul, terra che ha visto insediarsi molti Italiani, ma sarebbe più corretto dire Veneti. Quando in Brasile la schiavitù è stata abolita, la manovalanza è arrivata da oltreoceano, dal Veneto in dosi massicce. Mi ha raccontato di incontri con figli di figli di figli di Italiani, che hanno mantenuto un forte legame con l’Italia, quell’Italia che con i loro padri si è comportata da madre degenere, salutandoli svogliatamente dalla banchina del porto per lasciarli andare e dimenticarli. Abbiamo dovuto aspettare Tremaglia perché lo Stato si ricordasse di loro, almeno in termini di diritto al voto. Ma gli emigranti e i figli loro non hanno mai scordato le loro radici. Molti parlano un atavico dialetto veneto mischiato col portoghese. Hanno sangue italiano, e ci tengono a ricordarlo. Serbano gelosamente, racconti, canti, filastroche che noi abbiamo scordato. Sono una fucina di sapere, una biblioteca da consultare. Mi ricordano gli Ebrei nella diaspora, fedeli alla loro terra, seppure protagonisti in terre straniere: patrioti. Ennio mi ha raccontato dei molti episodi commuoventi che ha vissuto, del legame che si è instaurato. E io ho pensato al mio Basile. Per fortuna non mi ha chiesto niente. Non lo so che cosa avrei risposto. In questi giorni da San Paolo mi sono giunti gli scritti del mio amico Paolo e della mia amica Edith, che ho pubblicato nel sito di Macondo. Sembra lo facciano apposta, ma sono tempestivi nel mettere il dito nella piaga dei miei dubbi. Sento che qualcosa non gira nel verso giusto, che tra quello che vorrebbe l’intenzione e quello che è la realtà, c’è un abisso. Perché vado a raccontare delle favelas? Perché raccontare dei meninos de rua? Perché invitare la gente ad andare nel mio Brasile? Tante volte mi sembra che il dramma che vado a raccontare venga vissuto come il fascino di un’avventura estrema, l’invito ad andare a toccare a vedere e odorare la miseria, come un’esperienza, un’eccitante avventura da raccontare al ritorno, come fosse una battuta di caccia, come fosse un safari.

Invece sono storie di carne e sangue. Mi sembra di vendere un pacchetto accattivante: spiagge, samba, pezzenti col moccio al naso, minorenni prostitute, fogne a cielo aperto, sedicenni con armi ultramoderne, all inclusive. Sconto per famiglie.

Dove sta il rapporto alla pari? Non c’è, sono balle di sognatori. Il mio Brasile non vuole me, ma il mio portafoglio. È disposto a lasciarsi commiserare, pur di avere dei soldi. No, non ci può essere umanità, rapporti sinceri tra esseri umani finché esiste il denaro: ci usiamo a vicenda. Io per vincere i miei sensi di colpa, loro per avere qualche nichel a disposizione.

Molto meglio la fanfara e il loro Brasile. È un rapporto sincero, perché non dettato dalla necessità fisica o dal senso di colpa, è una reciproca conoscenza, uno scoprirsi, un entrare in contatto autentico, un riconoscersi, un riscoprirsi.

Ecco cosa manca al mio Brasile la ri-conoscenza, il venire in contatto per ri-scoprirsi, un mettersi a nudo reciproco, senza veli, senza preconcetti. Mostrarmi nudo e vedere il mio Brasile nudo, indifeso, bisognosi entrambi di un abbraccio, toccare la pelle, accarezzarla, scambiarsi vicendevolmente piacere, senza altro scopo se non quello di dare piacere, di far capire all’altro quanto sia importante per la mia vita. Amare.

Invece ci mostriamo al povero indossando un saio, quasi a fargli capire che siamo simili, invece indossiamo il saio perché abbiamo il timore che l’altro ci rubi il doppio petto, mentre a lui interessa solo il portafoglio che cela. Perché vogliamo instaurare il rapporto nell’uguaglianza, ma è una mistificazione, non siamo uguali, io posso indossare il doppio petto e tu solo il saio. Kieślowski aveva ragione, nel ‘Film bianco’ spiegava che l’uguaglianza non esiste. L’unico principio vero è la fraternità, dove sappiamo andare oltre quello che indossiamo, perché nella fraternità ci si ri-conosce, ci si ri-scopre. Solo ci manca la volontà per viverla.

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