È vero che i poeti ci fanno paura
perché i poeti accarezzano troppo le gobbe,
amano l’odore delle armi
e odiano la fine della giornata.
Perché i poeti aprono sempre la loro finestra
anche se noi diciamo che è
una finestra sbagliata.
(Claudio Lolli)
“Che cosa e chi guarda?”, è la domanda posta a valle di un incontro yoga domenicale dal mio amico Gianluca che cura quelle mattinate. Certo messa così la domanda è sconclusionata, ma chi vi ha presenziato di certo ha trovato il legame con l’esperienza vissuta. Io sono stato assente (ahimè!) però il verbo usato nella domanda mi ha allettato e ci ho riflettuto.
Guardare. Normalmente lo accostiamo a vedere, ma sono due azioni molto distanti tra loro, non sono neppure sinonimi.
Guardare si regge sull’attenzione, guardare è osservare, contemplare, studiare qualcosa di esterno da me e farlo mio. In virtù di questo la poetessa Louise Glück ha scritto:
Guardiamo il mondo una volta, nell’infanzia
il resto è memoria
Il bambino non si sente proprietario di quello che ha intorno, guarda, osserva, assaggia per la prima volta, dà valore a ciò che ha davanti e se ne sente parte, è nel Tutto. Una conoscenza che è una crescita, dovuta al guardare.
Io non credo alla credenza diffusa che proveniamo da altrove e si riparte con la memoria cancellata; no, io credo che tutto si realizzi nei primi anni di vita, inizialmente guardiamo il mondo sconosciuto e, dopo che in memoria abbiamo accumulato nozioni sufficienti per distinguere l’io dal resto, cominciamo a vedere le cose e a non guardarle più. A quel punto la memoria ci stacca dall’osservazione, non comprendiamo più il mondo, non siamo più un tutt’uno, ma cominciamo ad apprenderlo, lo distinguiamo dal nostro corpo, alimentiamo l’io.
A rimanere compresi nel mondo, a sentirsi un tutt’uno, sono i santi e i poeti.
In loro l’occhio non è ingannato dalla memoria, loro continuano a guardare il mondo, ne assaporano la meraviglia, per questo ci mettono a disagio o, peggio, ne abbiamo paura. In questo sta la forza del poeta, ha lo sguardo contemplativo che violenta chi ormai sa solo vedere, ovvero la maggioranza. Il poeta soppesa, lecca, annusa, osserva in controluce ogni parola e ne restituisce un senso nuovo, che era rimasto nascosto per secoli, è uno svelare inatteso che scuote chi si è arreso al vedere.
Lo stesso processo lo vivono i santi: non si fidano più della loro vista, è ingannevole, si affidano all’ignoto, cercano la voce della pietra, scrutano dentro se stessi l’ordine cosmico, la pura bellezza.
Osservano una regola, introiettano lo sguardo per scovare tracce d’infinito e se dimenticano chi sono si identificano col Creato, tornano a essere Uno. Puri, semplici, innocenti. “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.” (Mt 18,3). I santi tornano bambini.
Vedere è fare un paragone. Vedo un oggetto e per riconoscerlo lo paragono all’idea che ne ho, così lo catalogo, è un processo immediato. Non mi curo più di studiarlo, presumo di sapere già tutto di lui. Ecco un primo errore che si fa vedendo: si scivola nella presunzione. Un oggetto, una parola, una frase, un abbigliamento sono sufficienti per avviare la mia memoria e vi cerco qualcosa che decodifichi quello che vedo e che mi tranquillizzi; non voglio trovarmi davanti all’ignoto, alla risposta assente, devo avere un’idea, un’opinione di tutto, devo saperlo pesare, insomma giudico. Ecco il secondo errore del vedere: il pre-giudizio, il giudicare a priori, per avere tranquillità. E siamo al terzo errore del vedere: la necessità di trovare sicurezza. Chi cerca sicurezza non vola, non osa rischiare.
I santi e i poeti rischiano, camminano sulla corda tesa della pazzia, per questo sanno lodare e conoscono il senso della vita e vi affondano fiduciosi; mentre noi che li vediamo con terrore o, se va bene, con lontana ammirazione, ci limitiamo a galleggiare in superficie, sopravviviamo.