Entrare alle medie è stato un trauma. Ero ancora legato a un mondo fantasioso, dove una mamma maestra ci guidava, ci coccolava e ci redarguiva all’occorrenza; mi sentivo uno tra ventisei, distinto e confuso con gli altri, felice.
Entrare alle medie è stato tagliare improvvisamente ogni legame con quel mondo, troncarlo, nessuna delle persone che avevano condiviso con me per cinque anni le elementari l’ho poi ritrovata alle medie: ero solo tra tanti sconosciuti. È stato traumatico sia il mio ingresso sia i tre anni trascorsi alle medie. In più ero entrato in una classe piena di tipi smaliziati, non vivevano come me nel mondo della fantasia, ma in quello del mondo aggressivo, dove bisogna vincere per non essere vinti, disposti a cadere nella violenza pur di primeggiare. Una classe ingestibile per la presenza di cinque, sei elementi più vecchi e violenti che portavano disordine, malcontento e sopraffazione. In quegli anni mi ero pure iscritto a pallacanestro, un ambiente per me peggiore della scuola. Oltre a trovarvi alcuni soggetti che avevo in classe, era violento nel pensiero, meglio, nella distinzione di classe sociale. Se a scuola mi dovevo scontrare con la violenza fisica, a basket mi dovevo scontrare con la violenza psicologica. La pallacanestro è stata, non nelle intenzioni della società sportiva, ma di certo nella prassi, uno spartiacque tra i borghesi e la feccia popolana (a cui appartenevo). Non indossavo scarpe da ginnastica di marca e i compagni me lo facevano notare, ho provato a convincere mamma a comperarmele, la società ci forniva un buono sconto per acquistarle. Ma mamma doveva pensare alla famiglia da sola, papà era morto e tutto pesava su di lei. No, niente spese folli per un paio di scarpe che mi sarebbe andato bene, sì e no, per sei mesi. Non lo capivo allora, so solo che mi sminuiva verso gli altri, mi faceva sentire nel posto sbagliato, il buffone da deridere. Mi pesavano gli allenamenti, mi pesava l’ambiente, non mi permetteva di imparare il gioco, restavo l’ultima scelta durante una partita. Ingoiavo silenzioso l’umiliazione, ogni umiliazione. Papà stava morendo e gli promisi che avrei continuato a giocare a pallacanestro. Non che ci tenesse, ma avevo ingannato pure lui, credeva che mi piacesse quello sport, per questo mi invitò a continuare a giocare, qualsiasi cosa sarebbe successa, me lo disse con un fil di voce, gli occhi che non volevano restare aperti e un respiratore che gli pompava aria che non voleva scendere nei polmoni. Me lo disse esausto, dopo che gli avevo portato in ospedale una medaglia d’oro (finto) vinta in un torneo. «Continua a giocare!», mi disse. Ora probabilmente so che voleva dirmi altro, voleva dirmi che dovevo vivere con gioia. Ma a dodici anni, lo avevo inteso come l’ordine di continuare gli allenamenti di basket.
Per tre tardi pomeriggi a settimana mi presentavo in palestra. «Mani di merda!» era l’analisi urlata dell’allenatore quando perdevo la palla. Era aggressivo nei modi, lo era nella sua stessa vita, non ci allenava per farci scoprire il senso dello stare assieme, ci allenava perché dovevamo imparare (e in fretta) a vincere. E vincevamo, sempre. Se vincevamo male era peggio di una sconfitta, i rimproveri e le urla non mancavano.
Dovevo svegliarmi e velocemente, dovevo adattarmi all’aggressività del mondo, assumerla come mia, dovevo essere prevaricante verso i più deboli e violento verso i più forti. Scimmiottavo gli altri, senza volontà, non ero così, ero altro.
Sono stati anni cupi, tristi. Ho visto papà andarsene tra mille dolori, ho visto il pianto di mamma lasciata sola con un figlio di dodici anni e una figlia di quattro, l’ho vista affranta prendere in mano le redini della nostra vita e darle un senso, spaesata, senza speranza, impegnando tutta se stessa: diventare padre e madre.
Ho affrontato quegli anni come si attraversa una fitta foresta cupa e spinosa: ferite tante, ma sono rimasto intero.
Dovrei essere orgoglioso di me, dovrei sentirmi vivo, ma il ricordo della sofferenza mi vince. Jesolo, dove ho vissuto tutto questo, per me è sinonimo di dolore, tanto che provo fastidio solo a nominarne il nome.
Dovrei aver superato le cattiverie e le angherie vissute: i pugni violenti dei compagni più vecchi, le derisioni in pubblico, il dileggio a cui mi sottoponevano per le rime scurrili e baciate a cui il mio cognome si presta (a dirla con gli americani ero un looser, un perdente; avevo provato a convivere e accettare le offese, ma avevo peggiorato le cose, per tutti ero un debole, quindi da calpestare). Dovrei aver superato tutto questo, invece quando entro nei confini di Jesolo, tutto questo mi ritorna. So che non ha senso, è un passato remoto, ma ritorna tempo presente, è un malessere che riaffiora.
Non odio Jesolo, ma non la posso amare. Non può neppure chiedermi scusa: scusa di che? Della mia debolezza? Delle mie disgrazie? Di essermi trovato impreparato ad affrontare l’adolescenza? Della morte di mio padre?
In fin dei conti a Jesolo ho vissuto anche delle belle esperienze, ma quei lancinanti graffi sanguinano ancora. Eppure dovrei essergli grato.
Senza quelle ferite non avrei fatto delle scelte, non mi sarei schierato, non avrei prestato importanza agli ultimi. Forse a me è servito proprio tutta quella sofferenza per non diventare, come lo sono diventati tanti miei amici, un borghese destroso sensibile solo ai soldi.