Il pittore

Che cosa stava ammirando? Un tramonto sulla laguna? Il volo di un cormorano? Che strano, erano così rari e ora pullulavano, era dovuto al cambiamento climatico? Probabilmente sì. Era questo che stava catturando la sua attenzione: un uccello che sapevamo di passaggio mentre ora sembra stanziale? Era quello che vedeva o quello che sentiva a stregarlo? Capiva che stava rincorrendo i ricordi, o meglio, l’idea dei ricordi. Ormai lo sapeva che i ricordi mutano, migliorano col tempo se sono legati a un bel momento, mitigano un dolore se sono legati a un periodo triste. In ogni caso stava rincorrendo delle bugie. Era davanti a un istante reale e bello, eppure non lo scalfiva. Stava inseguendo, inutilmente, quell’eterno ritorno di occasioni mancate che sono stati gli occhi di lei, le sue mani, il suo sorriso; non stava inseguendo quel tramonto, quel volo in lontananza, quel profumo di salsedine.
Lentamente la forma di un sorriso si espandeva sul suo volto di uomo vecchio, ma dal cuore ancora giovane, dai sentimenti frizzanti che desideravano essere ravvivati da quelle mani, da quegli occhi, da quel sorriso persi una vita fa.
Cercò un tubetto carminio, ne spremette un po’ sulla tavolozza, vi intinse un pennello morbido e tracciò un segno sulla tela vergine.
La sua fama era cominciata così, dall’assenza di lei, dalla sua sconfitta, dal magone che voleva allontanare da sé.
A contarli i suoi quadri a che numero si arrivava? Non lo sapeva, era materia pr quei sanguisuga dei critici, i quali avevano vivisezionato la sua produzione mentre la pennellava con fervore, pathos, malinconia, rabbia. A ogni periodo avevano dato un nome, avevano catalogato la sua produzione, l’espressione della sua anima, ne avevano colto accenti e cadute, momenti di svolta e stasi. Gli veniva da ridere: che cosa ne potevano sapere? Però erano state parole che gli avevano consentito di raggiungere una sicurezza economica, il suo status lo doveva anche ai loro deliri intellettuali, ai loro voli pindarici per accostarlo a una corrente pittorica o a un’altra. Lui non si era mai mosso da quel cavalletto e da quella tavolozza, erano diventati una necessità per non scivolare nel pianto, per non nominare inutilmente quel nome. Tutti i suoi quadri rappresentavano la sua incapacità di superare un addio? Probabile. L’amore, si stava convincendo, serve a questo, a vivere un dolore, ma, in nome dell’amore, non precipitare in esso e trovare radici esposte lungo in precipizio per aggrapparsi e risalire, lentamente, faticosamente, per assaporare la vita e tornare a poggiare i piedi sulla terra sicura senza sentire sotto di sé il vuoto. Questo e solo questo erano stati e sono i suoi quadri. Non importa se erano quadri astratti, surreali, paesaggistici, ritratti, nature morte, avevano un solo tema: lei.
Ma anche questo non era vero, lo sapeva, non era lei, ma l’idea di lei, i sentimenti che aveva costruito intorno alla sua assenza e quelli che si erano infranti nel suo addio. I suoi quadri rappresentavano il suo dolore, la sua passione: erano il suo spirito.
«Ma allora che cosa sei per me?», chiese al tramonto. Non vedeva le variazioni di rosso e blu che si mischiavano per lasciare posto al nero, vedeva gli occhi di lei che si chiudevano piano, a loro aveva rivolto la domanda.
Per la prima volta percepì la risposta: «Sono la tua musa!»

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