Domenica, durante la messa, ho guardato le facce dei presenti. Guardavo don Joshi, non so come cavolo si scrive, un giovane prete venuto dall’immensa India in questo buco di mondo a spiegarci la Parola. È bravo, non ti fa addormentare, fa delle prediche che ti incitano ad agire, ma è sempre bene attento a non trasgredire i dettami dei superiori, neppure lui ti sviscera il rivoluzionario pensiero evangelico. Ma non è di questo che voglio parlare.
Dicevo che mi son messo a guardare le facce dei presenti. Persone che sono diventate il contorno della mia vita e quella dei miei figli.
Soprattutto a motivo dei figli io e la mia signora abbiamo iniziato a interagire con l’umanità che ci vive intorno. È una bella umanità, tutto sommato, che si dedica alla vita della comunità, che cerca di tenere viva la luce dell’aggregazione e del vivere insieme.
Guardavo il coro. Guardavo gli adolescenti. Guardavo gli adulti. E il pensiero della morte si era insinuato in me. È un pensiero non costante, ma si presenta con maggior insistenza, saranno gli anni che passano, sarà l’incredulità di trovarmi a un passo dei cinquant’anni senza rendermi conto di averli, sarà che me ne sento molto meno e mi fa arrabbiare sapere che gli altri me li vedono stampati in faccia mentre non me ne sento più di trenta.
«Non ti vergogni, alla tua età», questo mi sento ripetere, quando mi esprimo in battute, in goliardie che, non so perché a cinquant’anni non si debbono più fare. No, non mi vergogno, e andate a fare in culo.
Il pensiero della morte, dicevo, mi aveva pervaso durante la messa.
E ho provato a immaginarli senza di me, dopo la mia morte.
Don Joshi sarebbe stato ancora lì sull’altare affiancato dai chierichetti; il coro in piedi a intonare i canti, con nuove ragazzine al seguito; alle chitarre facce vecchie con al fianco le nuove a cui avranno trasmesso la tecnica; i parrocchiani, quelli con i loro posti fissi e guai a portarglieli via, e quelli a cui un posto vale l’altro; la mia famiglia.
Che cosa farebbero senza di me? Esattamente le stesse cose.
La mia assenza non avrebbe spostato di un millimetro quella funzione.
E non ho provato sgomento, impotenza, rabbia.
Sono stato pervaso da una grande serenità.
In quel momento ho capito che avrebbero continuato con i soliti gesti perché non sono io che servo a loro, sono loro che servono a me.
Sono io ad avere bisogno del mondo, non è il mondo che ha bisogno di me.
Io, noi, siamo esseri del tutto inutili, vegetiamo, cerchiamo di sopravvivere, la nostra vita, vissuta per noi e solo per noi, è inutile, vuota. Si fa senso solo nel momento in cui vedo un Altro, riconosco la mia diversità, e nella felicità dell’altro trovo la mia felicità: che senso avrebbe altrimenti mettere su famiglia? Solo obbedire alla legge del mantenimento della specie? No, non ci credo, per sottostare a questa legge potrei ingravidare la passante di turno e andarmene indisturbato per la mia strada: il mantenimento della specie sarebbe garantito.
Ma non è il mantenimento della specie che ha il pensiero più importante, sono io, i miei sentimenti, che si possono esprimere solo quando ho di fronte l’Altro. Solo davanti a un Tu posso capire chi sono. Solo avendone cura, posso scoprire la mia persona.
Questo è il bello di essere al mondo: sapere che ci sono gli altri e in loro puoi trovare l’opportunità per conoscerti.