camminare sulle acque

Camminare sulle acque

Ci ho messo tanti anni prima di scrivere queste parole, ma in questo periodo ho raccolto dei passi del Vangelo e vi ho trovato un nesso, un insegnamento. Gli episodi hanno come palcoscenico le acque. Non l’acqua, che non è altro che un molecola fondamentale per la nostra vita, una molecola con cui ognuno di noi è costruito al 70%. Ma l’acqua citata al plurale, le acque, intendendo con questa la metafora le insidie della vita. Inizio dalla prima estrapolazione tratta dal vangelo di Matteo.

Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». (Mt:4 18-19)

Quando comincia la sua opera e chiama a sé dei discepoli, i primi Gesù li trova nel mare (in realtà era un lago, ma lo chiamavano mare). Si rivolge a due pescatori, a due persone che dovrebbero essere avvezze nel sentire sotto di loro una base instabile, ondeggiante, insicura. Li invita a seguirlo perché vorrà fare di loro dei pescatori di uomini. Che cosa significa essere pescatori di uomini? Il loro mestiere è gettare le reti e issarle quando sono piene, caricano la barca di pesci, dando loro la morte. Ma se caricano in barca una persona che sta affogando, gli ridanno la vita. A questo sono invitati, loro che poggiano i piedi un una base instabile, devono salvare l’umanità.
Perché si rivolge a chi sa tenersi in equilibrio su un piano instabile? Perché il mare è la vita, la nostra vita è una barca in mezzo mare, in balìa a ogni evento.
Oltretutto il mare, nella cultura ebraica, ma non solo, era un simbolo di morte. In fondo agli abissi viveva il Leviatano, il mostro marino con la testa probabilmente di coccodrillo, un mostro attorcigliato (leviathan in ebraico significa proprio attorcigliato) che insidia i naviganti. Ma non è il solo; pensiamo a Omero, Ulisse lo fa girare per il Mediterraneo e si trova a combattere i mostri marini di Scilla e Cariddi. Lo fecero anche gli Argonauti. Ulisse poi vinse sulle voci seducenti delle sirene, altri mostri marini. Nel mare si è a contatto con la morte, sta sotto, è nascosta, la vita degli uomini si svolge in superficie.
La nostra vita è così, su una barca da dirigere chissà dove, con la morte invisibile che ci corre sotto le onde e affrontando tutte le altre insidie. Gesù cerca gente che non teme di navigare per salvare l’umanità.
Ma si capisce presto che l’uomo naviga perché costretto, ma non fa niente per vincere le sue paure, desidera la terraferma, il suolo sicuro, immobile, fa di tutto per uscire dal mare e trovare un porto sicuro. Ci sentiamo a nostro agio se parliamo e agiamo con i piedi ben radicati alla terra, cerchiamo sicurezze, inseguiamo chi ci promette sicurezza, votiamo chi si spende per la sicurezza.

In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che moriamo?».Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». (Mc4:35,-40)

Per passare dall’altra riva, Gesù usa la barca, non cammina. Perché è nel mare che si diventa pescatori di uomini, solo buttandoci nell’ignoto, lasciando le sicurezze, troviamo l’umanità. A riva ci sono solo interessi, c’è la religione che ci dice che la salvezza passa attraverso la sottomissione e le offerte, c’è il Potere che ci arruola come soldati o come operai, in cambio di una paga sicura pretendendo obbedienza e abnegazione. Gesù ci dice che quella non è vita, è prigionia. La libertà è il bene prezioso, ma non è sicuro, mai; non racconta frottole, lo ha sempre detto, le insidie ci sono, la barca ondeggia o i lupi possono sempre comparire nei prati erbosi dove lui porta il suo gregge. Ci dà solo una garanzia: lui sarà sulla barca, lui sarà il primo ad affrontare i lupi. Su questo dobbiamo avere fede. La tempesta del brano la vedono solo gli apostoli, Gesù riposa beato. Perché vedono la tempesta? Perché non vogliono affrontare il mare, perché preferiscono la sicurezza della religione e del Potere, non interessa loro la libertà. La tempesta ce l’hanno nel cuore. Non hanno fede. Ma che cos’è la fede? Il brano ce lo indica, affrontare il mare, i dubbi della vita, alla ricerca dell’umanità. Cominciando dalla propria, che l’abbiamo nascosta sotto un io smisurato che ci vuol spingere a riva, che ci rende disposti a primeggiare e a essere ruffiani per avere le adeguate attenzioni della religione e del Potere, così da traguardare a una vita comoda, di comando, dove possiamo essere serviti. Però sarà una vita di paure: paura di perdere quanto raggiunto; paura dei ladri; paura che qualcuno ci rubi il posto nella scala sociale che abbiamo raggiunto; paura dei poveri, specchio di una condizione che detestiamo. Nella barca invece tutti devono fare la loro parte, ognuno è a servizio dell’altro, non c’è meta, non c’è patrimonio, tutto è condiviso. C’è la salvezza dell’umano. Ma ci pare poco.

Subito dopo ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù. La barca intanto distava gia qualche miglio da terra ed era agitata dalle onde, a causa del vento contrario. Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare. (Mt 14:22-25)

La fede ci toglie l’ossessione della morte. Certo, sotto il mare c’è il Leviatano, ma non per questo dobbiamo smettere di ammirare il sole in cielo, il volo degli uccelli, la vicinanza dei delfini, godere la brezza. Anzi proprio perché il Leviatano sta attorcigliato da qualche parte negli abissi, ci dobbiamo ricordare di dover ringraziare per il mondo che abbiamo attorno e per i nostri compagni di viaggio. Se impariamo ad accettare la condizione di instabilità, troviamo nella preghiera l’energia necessaria per conoscere quello che ci sta attorno e conoscere noi stessi (salì sul monte, solo, a pregare. Salire sul monte significa raggiungere la condizione divina). Questa ricerca, assieme al servizio, devono essere il nostro pane quotidiano per cui ringraziare. Questa è la libertà, non accontentarci delle risposte che a terra ci danno il Potere e la religione, ma un nostro percorso di liberazione, per giungere all’essenza. Se raggiungiamo questo, niente ci può far paura, cammineremo sulle acque.

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