Essere nonviolenti

La Natura al nostro servizio: siamo sicuri?

Il pensiero greco ci ricorda che la natura è un soggetto indifferente alle vicissitudini umane; nella stessa linea troviamo il Tao Te Ching che apre il capitolo 5 con questa frase:

I cani di paglia erano delle sagome di paglia che ricordavano un cane che nei riti funebri venivano addobbate per poi essere alla fine calpestate o bruciate. Le diecimila creature sono i viventi. Questo secondo il Tao la natura fa di noi. Non ha alcun occhio di riguardo verso l’umano, ci usa come qualsiasi essere vivente. I greci dicevano che essa è uno sfondo immutabile regolato dalla necessità.1 Una visione lontana dal pensiero biblico dove il mondo ci viene dato dal Signore per dominarlo. Credo che nei secoli si sia frainteso questo invito a dominare, inteso come un possesso che consente totale libertà di azione. Siamo di dura cervice ed egoisti e l’invito del Signore lo abbiamo interpretato come il vantaggio per sentirci divinità e onnipotenti. Però la Bibbia racconta che:

Se ci mettiamo davanti allo specchio la nostra immagine riproduce pari pari le nostre azioni, non si comporta diversamente. Il verbo dominare deriva da Dominus, Signore. Dio ha invitato l’umano, sua immagine, a essere Signore del creato come lo è lui, non diversamente. Dio del Creato ne ha avuto cura e ne gioiva, quindi non è nel possesso e nello sfruttamento che va espresso il dominio, ma nella cura. “Dio vide che era cosa buona”, questo marca una differenza rispetto al Tao o al pensiero greco, secondo la Bibbia la natura non è indifferente, è buona. Il dominare non doveva essere accompagnato da atti violenti, Dio non ha creato con violenza. Come si può essere violenti con i buoni?

Per i Greci la Natura fornisce all’umano due istinti funzionali alla Natura stessa, rispondono alla sua necessità: l’istinto sessuale e l’aggressività. Il primo consente il proseguimento della specie, il secondo protegge i figli. La vita, come ricorda Platone, non è a servizio dell’uomo, è vero il contrario: l’uomo, piccolo frammento del Tutto, è generato per l’armonia cosmica.

Giustificare il dominio

Lo stare al mondo per l’umano in quanto essere pensante è fonte di inquietudine da sempre. Lo sappiamo dalle elementari che gli umani passarono a convivere dalla famiglia, al clan, alla tribù (un centinaio di persone), per poter sopravvivere alle insidie della vita. È nella vita in comune che l’uomo sviluppa il linguaggio e il pensiero. È nei periodi di carestia che scopre l’esistenza di altre tribù a cui depredare con la violenza i loro beni o iniziare un rapporto collaborativo, di mutuo sostegno e scambio. Sa che la Natura è un pericolo, ma è pure fonte di vita, è cosa altra ma pure vicina. Per dare una risposta a questa indifferenza evolve nello spirito e considera tutto quello che avviene e che vede, disegno di una forza superiore, che normalmente chiamiamo Dio. Scopre la ritualità, il legame che gli consente di interagire con questa entità, chiedendone i favori o per avere risposte sull’incognita del futuro. Intanto la necessità di sopravvivere lo porta a riunire più tribù, organizzandosi in città, strutturando la società in senso piramidale. Se dall’ingraziarsi gli dei non arrivano benefici (si muore giovani e per banali malattie, di parto, sbranati da animali, annegati, da eventi naturali come terremoti o eruzioni…), si inizia a trovare un senso nelle narrazioni, nelle gesta di chi ci ha preceduto, sono i barlumi di quella che sarà la Storia. La Storia porterà con sé il senso di proprietà e di appartenenza (per la lingua comune, per il luogo in cui si vive, per gli dei che si adorano, per come si organizza la società, per usi e costumi, per le opere). Quindi il concetto di possesso ha il sopravvento, il possesso significa sopravvivenza, il prevaricare ti permette di sfruttare il lavoro di popolazioni vinte, ridotte a schiavitù, e migliorare la propria vita. Ecco allora che le parole scritte dal biblista: “E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».” potevano solo essere lette in termini di possesso, sfruttamento e prevaricazione. La Storia racconta di guerre, prevaricazioni, appartenenza, con Dio sempre dalla nostra parte. Dio si arruola nelle nostre file e disprezza il nemico. Ma almeno questo svela una verità: non è Dio che ci ha creati a sua immagine, siamo noi ad aver creato Dio a nostra immagine.

Nonviolenza

La nonviolenza non appartiene alla parte istintuale dell’umano, la violenza sì. I greci, come ricordato, affermavano che la natura ci dona l’aggressività per difendere la prole. Questa aggressività l’abbiamo usata contro gli altri viventi per nutrircene, per vestirci, per costruire capanne e l’abbiamo usata verso i nostri simili per vessarli. La nonviolenza nasce quando capisco che la vita, ogni vita, ha il diritto di essere vissuta, che non mi posso nutrire della vita altrui, che non posso vivere di agi se questi agi sono determinati dalla sofferenza di altri. Siamo lontani dall’istinto, siamo dentro quel livello etereo, impalpabile che chiamiamo spiritualità. Ci si arriva addestrandoci a far tacere quella parte animale istintuale che è indifferente alla sofferenza altrui, riconoscendo l’altro, qualsiasi altro, come un me stesso: la mia immagine. L’immagine divina che mi agita dentro la percepisco negli occhi dell’altro. Nonviolenza non significa estraniarsi per vivere pacificamente, isolandosi in un’oasi, ma un restare impantanati nella violenta quotidianità, come afferma Judith Butler, è quando si è «impantanati/e nella violenza che lo sforzo esiste e che la possibilità della nonviolenza emerge entro i termini di quello sforzo. Essere impantanati/e nella violenza è la condizione di possibilità di quello sforzo».2 La nonviolenza è uno sforzo, non è naturale. Perché davanti all’offesa, alla rabbia, istintivamente risponderei con la violenza, mentre la nonviolenza, per emergere, mi dice di sforzarmi a non cadere in quel tranello, di agire diversamente. Il seme della violenza sussiste anche nella nonviolenza, agire in modo nonviolento induce a subire violenza. Ne è esempio Antigone, la quale disobbedisce al comando del nuovo re Creonte, il quale proibisce che sia data sepoltura al fratello di lei, Polinice, perché nemico di Tebe e sia lasciato dov’è caduto in battaglia per essere divorato dagli uccelli e dai cani. Chi trasgredisce l’ordine sarà condannato a morte. Antigone chiede alla sorella Ismene di aiutarla a seppellire il loro fratello (non dimentichiamo che le donne non godevano di alcuna considerazione), Ismene ha paura del potere e non partecipa. Antigone (promessa sposa a Emone, figlio di Creonte), pur nel pantano di una legge iniqua, non cede a una vendetta, ma a un gesto gradito agli dei e agli avi, fa un atto di giustizia, ben sapendo che potrebbe pagare con la vita (e pagherà). L’atto nonviolento di Antigone non è rivolto contro il Potere, va oltre, è un gesto misericordioso, risponde alle leggi divine. La nonviolenza nasce dal pantano della violenza e quindi non può essere una dimensione pacifica, è un atto politico rivoluzionario che ti mette in pace con gli dei, ovvero con la parte più alta di noi. Per essere nonviolenti bisogna vivere in maniera distaccata la dimensione egoica che ci attanaglia. Bisogna sostituire l’io con il noi. O se vogliamo dirla con parole altre: sapere di essere nell’Uno e non un uomo meschino.

1 https://www.feltrinellieditore.it/news/2004/06/07/umberto-galimberti-chi-ha-paura-di-questuomo-3059/

2 Nel pantano della violenza. Il linguaggio dello Stato-nazione e le “seconde generazioni” di Davide Zoletto, Aut Aut n°344.

Foto di Stefania Vio.

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