Il Signore, il Dio, comandò all’uomo: «Di ogni albero del giardino potrai liberamente mangiare, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiarne, perché nel giorno in cui ne mangiassi per certo moriresti!» (Gen 2,16-17)
Questo è il passo di Genesi su cui mi vorrei soffermare. Ho riportato il testo presente nel mirabile progetto diretto da Enzo Bianchi e che vede degli eccellenti traduttori e curatori (Cucca, Giuntoli, Monti solo per citarne alcuni) per conto di Einaudi. Questa Bibbia (la prima edizione è del 2021) è un’opera di elevato spessore culturale in quanto, per la prima volta, è stata tradotta direttamente dalla lingua originale: aramaico, ebraico e greco, arricchita da un esaustivo commentario per capire nel profondo le sfumature di una frase che in una traduzione, inevitabilmente, si perde.
La frase, credo sia noto a tutti, la si trova all’inizio del libro, nel secondo racconto relativo alla Creazione. Il primo racconto è stato scritto da una mano sacerdotale, probabilmente dopo il ritorno dal primo esilio mesopotamico e risente delle cosmogonie di quelle terre; il secondo è laico, legato a una visione palestinese, scritto nello stesso periodo del primo o subito dopo.
Il brano è estrapolato dal racconto che riporta l’aspetto intimo di Dio con l’essere umano, la relazione che si stabilisce tra i due.
Siamo nel momento dopo che Dio aveva separato i cieli dalla terra e aveva raccolto le acque: non esistevano la vegetazione e gli animali. Crea l’essere umano dalla terra, gli dà vita, popola la terra di vegetazioni e crea un giardino e vi colloca l’umano. Questo giardino, chiamato Eden, si trova a oriente. Eden è stato chiamato in alcune tradizioni Paradiso terrestre, riconducendosi all’architettura persiana che chiamava paradiso il giardino dove i nobili andavano a rilassarsi. Eden in ebraico significa piacere, delizie. Dio consegna il giardino all’uomo perché lo dòmini, ovvero se ne prenda cura1, quindi gli affida un lavoro. Il lavoro non è qualcosa di spregevole come lo interpretavano le civiltà di allora che lo affidavano agli schiavi, ma un atto divino, anche Dio creando lavora. In più gli dice che per sfamarsi ha a disposizione le piante che danno seme e gli alberi da frutto. Punto. Niente grigliate o sgozzamenti di animali. Mi dispiace per la maggioranza, ma l’autore era vegano. Nessuna violenza parte da Dio o viene sollecitata da Dio.
Tuttavia l’umano si sente mancante di qualcosa così Dio, sempre dalla terra, crea delle creature, gli animali, per trovargli qualcuno che gli sia alleato (tante traduzioni scrivono qualcuno che gli sia di aiuto, mi pare più con l’intenzione di avvalorare la sottomissione femminile che rendere fede al testo). L’uomo (da intendersi nell’accezione di essere umano) dà un nome a tutti gli animali, ma nessuno di loro viene sentito come suo alleato (alleato deriva da unire, legare assieme). Così Dio non usa più la terra ma la carne viva dell’umano, lo separa da qualcosa per poi riunirlo. In qualche modo scinde l’umano in due esseri, prelevando una parte dalla struttura centrale del corpo che ci sostiene, prendendo una costola da un fianco. L’umano ora è incompleto, ha bisogno di ricostruirsi il fianco, ha bisogno di qualcuno a fianco. La nuova creatura la riconosce subito, perché carne della sua carne, non c’è diversità, sono della stessa sostanza e infatti l’umano darà il nome a entrambi, e in ebraico suona bene, la Bibbia gioca sulle allitterazioni, lui si chiamerà ish e la nuova creatura isshah (in italiano lo hanno adattato in uomo e donna, perdendo il legame, la continuità, l’alleanza), è passato inosservato l’abbandono del nome primitivo adam -fatto di terra-, ora è qualcosa di più, adam diventa due esseri che si completano, che hanno bisogno uno dell’altra, non c’è maschile senza femminile, non c’è femminile senza maschile, se non riconosciamo di essere formati da queste due parti siamo solo terra. Che siamo difronte a un essere diventato due lo dimostra il fatto che Dio non deve spiegare alla donna le regole, le sa già. Oltre ad avere cura di Eden e a mangiare vegetali, gli dà anche il monito da cui parte questa riflessione e più che un comando mi pare la preoccupazione di un genitore verso i figli: non fare quella cosa perché ti farai male. Dio ha creato l’Eden, la delizia per la gioia di ogni essere, tuttavia gli consegna il libero arbitrio, la totale libertà, anzi la responsabilità della libertà:
«Di ogni albero del giardino potrai liberamente mangiare, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiarne, perché nel giorno in cui ne mangiassi per certo moriresti!»
Ovvio che era una frase incomprensibile per gli umani, non sapevano che cosa fosse la morte, dovevano solo avere fiducia delle parole di Dio, come un bambino si fida delle parole della mamma.
L’albero della conoscenza del bene e del male non va inteso a mio avviso, come molti commentatori hanno fatto, come la responsabilità del peccato. Nei commenti de ‘La Bibbia di Gerusalemme’, per esempio, leggiamo che è il simbolo della «facoltà di decidere da se stessi ciò che è bene e male, e di agire di conseguenza». Questa interpretazione mi pare faccia da sponda per scaricare la responsabilità del male all’umano, ma se nell’Eden un albero ha quel nome, significa che Dio conosce il male, quindi il male precede l’umano. Secondo me non è che dobbiamo dare una lettura morale alle parole bene e male, il senso va legato alla parola conoscenza. Il bene e il male sono antagonisti e complementari, forse, se l’autore fosse stato uno dell’estremo oriente, avrebbe scritto ‘l’albero della conoscenza dello yin e dello yang’.
L’Eden è delizia, però è una bolla di protezione; Dio ha dato all’umano la libertà di scegliere e sappiamo che ha scelto la conoscenza. E la conoscenza porta anche l’esperienza della morte. Ed è l’unica sicurezza che gli dà Dio: per certo moriresti! Non lo sa come avrebbe condotto la sua vita, non lo sa quali gioie e quali sofferenze avrebbero riempito i suoi ricordi, sa solo che il percorso fuori dall’Eden gli avrebbe offerto molte prospettive affascinanti assieme al dolore e alla fatica, e l’unica cosa certa era che tutto questo fare avrebbe avuto una fine.
In effetti, dopo la scelta, dal racconto sembra che Dio sia adirato e voglia punire gli umani, ma non è così. Io credo che Dio abbia consegnato quella parte di male che è presente anche nel bene: il male fisico (le doglie del parto), il dolore emotivo (porrò inimicizia tra te e la donna), la fatica di vivere (col sudore della fronte mangerai il pane). Li caccia dall’Eden non per vendetta, ma per non condannarli a un’esistenza eterna di dolore, se avessero mangiato anche dall’albero della vita sarebbero diventati immortali, invece la morte pone fine e ristoro alla sofferenza. Sa pure che nella ricerca della conoscenza poteva scordarsi di Lui, addirittura negarne l’esistenza, ma una cosa doveva essere limpida, lui avrebbe atteso una sua chiamata, Dio sarebbe rimasto fedele all’umano.
1 ne ho parlato qui: https://www.stradebianche.eu/esegesi-di-wardakeanda/essere-nonviolenti/
Foto di Fabio Meneghetti