A vederla non ti accorgi che esiste, il passo non lascia impronta, non senti il profumo al suo passaggio, non sorride più.
Raramente è sola, gira quasi sempre col suo uomo. Così presenta a tutti il figlio ventenne: «Il mio uomo!», dicono sia autistico, non ho mai approfondito, mi sembra di scivolare nel pettegolezzo, cambia qualcosa alla scena? Madre e figlio camminano vicini. Lui legato con fiducia cieca e profondo rispetto alla madre, lei con le occhiaie che si fanno sempre più presenti, il passo di una donna appesantita da una vita dedicata alla cura del figlio, ai lavori di casa, al lavoro in fabbrica e all’unico sfogo che le è rimasto: il cibo. Non si cura, forse non ha neppure un rossetto, sta lasciando che i capelli mostrino i suoi anni, non li tinge più. Impersonifica la rassegnazione. Non fraintendetemi, non trascina il passo, non cammina piegata su se stessa, quasi avesse un peso insostenibile sulle spalle, no, la schiena è dritta, le spalle abbassate, guarda tutti in faccia, solo non riesce a nascondere la stanchezza di una vita votata al figlio e al timore del futuro che lo attenderà quando lei non ci sarà più. Dice che non è un sacrificio, i figli non lo sono, suo figlio è una scoperta quotidiana, emana amore come spontaneamente la rosa emana il suo profumo, ma in troppi non lo capiscono e la riducono alla solitudine, un invito non dichiarato di starsene lontana con la sua disgrazia. Lo penso anch’io? Non lo so, non le parlo da molti, troppi anni, non saprei che dirle, ma credo che le parole siano inutili e contraddicono ciò che si sente, ciò che si intuisce: per me quel figlio è un sacrificio che la sta consumando.
A volte la osservo da lontano e mi chiedo dove si è nascosta la ragazza che conobbi tanti anni fa. Se la rivedo nei suoi sedici anni la prima cosa che mi appare è il suo sorriso, i suoi bei denti bianchi che si intravedevano dietro le labbra carnose. Poi il nasino, con delle efelidi che le davano un tocco di tenerezza e quegli occhi grandi turchesi o verdi, non li ho mai saputi definire, cambiavano con la luce, così mi è sempre sembrato. Andava orgogliosa della sua chioma castana, importante, vaporosa.
La prima volta che indossò le minigonne mi chiese: «Secondo te ho belle gambe?»
Cavoli, se erano belle! Era una puledra sempre in movimento, scattante, amava correre, saltare, un’eterna bambina, e il suo corpo esprimeva tutta la sua agilità, stava mutando in un corpo di donna e sarebbe stata tra le più belle, ne ero certo. Ricordo di averla corteggiata, senza successo, da lei ho ricevuto quello che un maschio non vorrebbe mai sentirsi rispondere in questi casi: «Ti vedo come un amico, un caro amico, non roviniamo tutto!»
Invece il tempo, se non ha rovinato tutto, ha lasciato che gli impegni, le scelte, la distanza esaurissero quella forza che ci legava e non ci siamo più cercati.
Non ero diventato il suo ragazzo ma, con gran tormento interiore, il suo consigliere; quando doveva uscire con qualcuno mi chiedeva un giudizio sul vestito, sul trucco: «Sono bella?»
«Sei bellissima!» e dovevo trattenere l’impulso di saltarle addosso.
Oh, non pensiate che mi usasse, lei era prodiga di consigli, non richiesti, ma ci teneva; mi indicava una ragazza, diceva che secondo lei potevo provarci, certo non dovevo presentarmi in quelle condizioni, il mio abbigliamento era monotono: jeans e maglietta a giro collo con il nome di qualche gruppo rock d’estate, jeans e maglione lungo d’inverno. Dovevo dimostrarmi impegnato politicamente, e quel vestire era il modo perfetto per farlo capire. Lei mandava al diavolo me e la politica. Se la politica era non avere cura di se stessi, era una cosa stupida. Aveva ragione; a distanza di anni, le do ragione. Avere cura di sé è un supremo atto di resistenza. Se si ha cura di sé allora si ha cura anche degli altri, altrimenti è un inganno.
Così mi portava a far spese, dovevo vestirmi non coprirmi, diceva. Entrare un un negozio di abbigliamento con lei significava iniziare una battaglia, qualche volta la pattavo, in genere perdevo e comperavo quello che lei e i commessi suoi alleati, decidevano.
Aveva un solo scopo nella vita, insolito per quegli anni dove l’edonismo e l’individualismo stavano prendendo il sopravvento sul politico, sul sociale, desiderava sposarsi, metter su famiglia, voleva un fidanzato. Per questo cambiava spesso corteggiatore, per trovare quello giusto, doveva capire in poco tempo se era la persona perfetta con cui condividere il resto della sua vita, non poteva raggiungere i vent’anni e non avere vicino uno con cui condividere quel progetto.
Stava ancora vagliando dei candidati quando ci perdemmo di vista. Venni a sapere che la scelta era caduta su un ragazzo che faceva il muratore, un tipo di poche parole, pochi concetti in testa, ereditati da una mentalità maschilista, una vita basata sul lavoro e sul denaro. Confesso che mi deluse quella notizia, a vivere con uno così significava accettare un ruolo di sudditanza, diventare una casalinga obbediente, silenziosa e remissiva. Equivaleva a spegnersi, dimenticare la ragazza dinamica che era stata; l’esplosione di gioia che mi aveva inebriato per tanti anni aveva deciso di volatilizzarsi.
Poi arrivò il figlio, strano, diverso, aveva bisogno di attenzioni, nella mente era rimasto piccolo; lei aveva fatto un salto di responsabilità inaspettato, si era concentrata tutta su quella creatura bisognosa, mentre il marito, inadeguato, quel figlio lo considerava un fallimento e provava a dimenticarlo dandosi alla bottiglia e scappando di sera con gli amici per bere o per buttare i soldi in qualche night.
Durò sei anni quel precipitare verso la negazione di tutto, lo sgretolarsi del matrimonio non veniva neppure puntellato con dei litigi, aveva capito che stava dividendo il letto con un estraneo, credeva di conoscerlo, ma non era così; era una persona insensibile, si vergognava del figlio, sembrava anaffettivo verso quel minuscolo concentrato d’amore. Era sola.
Per il dilapidare dei guadagni nelle uscite notturne, era stata costretta a trovarsi un lavoro, un part-time al banco di un bar, al mattino, mentre il figlio se ne stava a scuola. Poi il pomeriggio lo dedicava al piccolo e alle faccende di casa.
Fino a che, ritornando verso l’alba da un locale di streaptease, il marito e due amici morirono in un frontale con un camion.
Trovò lavoro nella fabbrica dove è impiegata tutt’ora. Non credo che pianse la morte del marito, non lo ha mai detto, ma penso che si sia sentita sollevata di non dover più condividere la vita con quel puttaniere avvinazzato. La vita sua e quella del figlio erano totalmente sotto il suo controllo. Una vita spesa in incontri con psicologi per aiutare il piccolo a essere indipendente, nelle otto ore in movimenti ripetitivi alla catena di montaggio, nel tener in ordine la casa e parlare al figlio, stimolarlo, amarlo. Non ha fatto altro, consolandosi con qualche manicaretto, stava diventando una brava cuoca e un’abile pasticciera. Ma era sola. Sola.
E tale è ancora adesso, la osservo mentre col figlio, sta uscendo dal supermercato con il carrello e le borse piene.
Apre il portabagagli della sua utilitaria e spiega al figlio che devono prestare attenzione a disporre bene le borse per sfruttare tutto lo spazio, che non è tanto, poi ordina al figlio di andare a riporre il carrello, recuperare la moneta e tornare da lei, senza correre, guardando prima a destra e sinistra che non ci siano auto o moto in arrivo al che deve fermarsi e lasciarle passare.
Mi avvicino, lei mi fa un bel sorriso, ci abbracciamo e ci baciamo, da quanto tempo non ci vediamo?
«Hai trovato finalmente il coraggio di venirmi a salutare!» afferma lei. La guardo, le occhiaie, i capelli grigi poco curati, un colpo di spazzola e via, le zampette di gallina agli occhi, la pelle che sta perdendo tonicità, le rughe che iniziano a segnarle il collo, non impediscono al colore degli occhi di risaltare, non sminuiscono le labbra carnose, il nasino con le efelidi… rivedo la ragazza di allora.
È vero, finalmente ho trovato il coraggio di avvicinarmi, non sono migliore di altri, mi arrabatto nella stessa stupidità, non ho mai trovato un paio di minuti per chiamarla, per fermarmi quando la vedevo da lontano, l’ho evitata e non voglio rispondermi sul perché, avrei troppo schifo di me.
«E allora? Non mi dici niente?»
E le dico l’unica cosa vera che mi sento di dirle, so che le mi manderà al diavolo o si schernirà, ma mi sono avvicinato per dirglielo e lo faccio:
«Sei bellissima!»