Tanto tempo fa, quando gli umani avevano ancora un’ideale e a esso si stringevano per dare un senso alla vita e un nome al futuro, le passioni erano vive.
Ne sapeva qualcosa Grisostomo, detto Griso, e così lo chiameremo da adesso.
Aveva nel cassetto una medaglia che il re gli fece pervenire in una giornata gloriosa di fanfara e colpi a salve della nostra artiglieria, dove una folla entusiasta si era radunata per l’occasione con le bandierine tricolori; quale ringraziamento per il terrore vissuto e per le vite da lui trucidate solo perché stavano intanati nella trincea di fronte, col solo fine di dare ai ricchi le terre agognate, gli venne riconosciuto l’onore della medaglia.
Griso era un ragazzo del ’99. Ne doveva andare fiero, la retorica politica e militare si era insinuata veloce nella mente contadina a cui apparteneva, però lui era diverso. Aveva sperato in qualcosa di più di quell’attestato e quella medaglia di… boh, chissà di quale lega era fatta, valeva poco, era un simbolo. Lui sperava su un pezzo di terra da lavorare, ma quelle erano cose per ricchi, ai morti di fame come lui andava di lusso una medaglia, una stretta di mano del Duca d’Aosta, dietro front e via.
Quella sera, dopo esser ritornato con altri due ex commilitoni dalla manifestazione di Vittorio Veneto ed aver ricevuto gli onori, aveva risposto alle facce orgogliose e trasognate dei genitori e degli zii che lo stavano attendendo:
«Questa è la patacca che mi hanno dato per aver ammazzato dei crucchi, questo è l’attestato dove c’è scritto il grazie del re. Papà, mamma, con il foglio potete pulirvi il culo, con la medaglia… niente, non è utile a niente!»
Ciò detto andò in camera sua, spegnendo l’entusiasmo che l’attesa aveva alimentato in famiglia.
Griso al fronte aveva conosciuto Gino, un anarchico spedito al fronte dal tribunale che lo aveva accusato di vilipendio alla Corona. Gli piaceva ascoltarlo, aveva idee sull’umanità, sull’ingiustizia e sulla politica che lo avevano affascinato. Era stato Gino a soprannominarlo Griso, dicendogli che era il nome di un capo di delinquenti temutissimi che seminavano il panico secoli prima intorno a Como, la città di Gino, o qualcosa di simile.
A Griso piaceva il futuro che inseguiva Gino, lo sintetizzava in una parola temutissima: anarchia.
Griso aveva capito a sue spese che più bello è il sogno di futuro e più botte si prendono.
Tornato dal fronte, non aveva mai temuto di dichiararsi anarchico. Che al paesello suo equivaleva a dire niente, era il solo a sapere che cos’era l’anarchia tra la povera gente. Ma lo sapevano perfettamente il proprietario delle terre, il parroco, il farmacista e il maestro.
Ci aveva provato il parroco, che lo aveva avuto solo dieci anni prima come chierichetto, a spiegargli che quello che in apparenza sembrava un bene, in realtà era la voce del demonio, che solo quello che aveva imparato a catechismo era la vera libertà: la libertà di obbedire alla Chiesa. Però Griso era diventato un senza dio, a nulla valevano le orazioni e le messe prime a cui partecipava la madre tutti i giorni, il parroco glielo aveva detto: Griso era diventato un discepolo del diavolo!
Allora intervenne laicamente il maestro, spiegandogli che quelle idee avevano contribuito a far precipitare nel caos la Russia e a bloccare le fabbriche con gli scioperi, quasi che non lavorare fosse diventata la tattica migliore per il progresso, ma la verità era una sola: se non si lavora, non si mangia!
Ma Griso non dava retta al maestro, troppe tirate d’orecchie in gioventù. Così il proprietario terriero, per impedire che altri venissero infettati dalle idee di Griso, aveva allertato il farmacista.
E in effetti, una domenica sera, quando il Griso aveva lasciato la compagnia all’osteria per tornarsene a casa, percorrendo un vicolo buio venne assalito da quattro, cinque persone che lo presero a bastonate. Così, mentre lo medicava e lo fasciava, il farmacista glielo ricordava a ogni lamento che se l’era andata a cercare, che se voleva bene alla sua famiglia doveva smettere di andare in giro a dire certe oscenità, doveva pensare a trovarsi una brava ragazza, metter su famiglia, ma con quelle idee faceva paura a tutte le donne, sarebbe rimasto solo e, vedendo come lo avevano conciato, con buone possibilità di restare storpio.
Ma lui era cocciuto e non aveva mai dato peso alle velate minacce o alle concrete botte. Le aveva prese ancora e ancora. Poi in tempi di dittatura aveva aggiunto alle botte, l’olio di motore da bere e la galera.
Alla fine era sopravvissuto, aveva trovato una compagna anarchica che lo sapeva ben fasciare quando tornava carico di botte e lo sapeva riscaldare col suo amore. Il regime era caduto e lui aveva dovuto assistere a un ulteriore abbrutimento: il desiderio di arricchire. Per fortuna i pestaggi avevano lasciato il posto alla dialettica e Griso era diventato svelto di parola. Ma le sue convinzioni venivano spazzate via dal desiderio di benessere, dal desiderio proletario di appartenere alla borghesia.
Credeva che questo fosse il peggiore dei mali, ma dovette ricredersi quando ormai carico d’anni, vide il nipote essere portato in casa da degli amici, sanguinava dal naso, aveva i segni di botte ricevute in volto:
«Ma che cos’è successo?», chiese frastornato.
E uno dei ragazzi che lo avevano portato di peso in casa e lo stavano adagiando sul divano rispose:
«Quelle merde juventine ci hanno attaccato di sorpresa fuori dallo stadio. Ma noi fiorentini abbiamo risposto subito. Purtroppo suo nipote ne è uscito male! Ma è stato un grande, non è scappato!»
Griso si sentì sprofondare! Lui le aveva prese in nome della giustizia proletaria, in nome dell’anarchia! Il nipote si era battuto per difendere la Fiorentina, da che cosa poi, nessuno glielo sapeva spiegare.
Era arrivato il tempo di prendere congedo dal mondo.