Rinaldo – prima parte
Mi ero appena lavato e me ne stavo al balcone di camera mia ad
accogliere la frescura della sera, la mia famiglia era tutta davanti al
televisore, io ci vado poco, è un mezzo che mi annoia, non sopporto
guardare uno spettacolo o seguire un film interrotto in continuazione
dalla pubblicità, mi toglie il coinvolgimento alla storia, perdo la
partecipazione, l’immedesimazione e a quel punto perde di senso
continuare a seguirlo. Anche perché mi innervosisce quel nevrotico
saltare di canale in canale per seguire per cinque, sei minuti
qualcos’altro quando c’è un’interruzione pubblicitaria. Si segue per un
paio di minuti una cosa, pubblicità, cambio canale, un paio di minuti
un’altra, cambio canale, pubblicità, cambio canale, pubblicità, ritorno
al canale del film, ed è già ripreso e si è persa un po’ di trama. Non,
non fa per me una simile nevrosi.
Il telefono stava squillando, ero andato a rispondere, era mio cognato:
«Hanno chiamato i tuoi zii: è morto Rinaldo!»
Devo aver balbettato qualcosa, avevo chiesto del funerale e avevo
salutato. Mia miglie mi aveva chiesto che cosa era successo. Le avevo
riferito della morte di Rinaldo e la voce mi si era rotta e avevo avuto
un accenno di pianto. Ero tornato in camera. Ero sorpreso di quella
reazione, non mi aspettavo le lacrime, non è che lo avessi frequentato
chissà poi quanto. Però Rinaldo è una di quelle persone che rimangono,
sono avvolte da un alone di magia, perché semplici.
Era mio cugino, il cugino più vecchio della discendenza dei Camatta (con
due t, io ne ho solo una, ignoranza dell’impiegato dell’anagrafe nel
registrare il nome di mio padre quando si era sposato e aveva trasferito
la residenza da Ceggia a Jesolo), aveva un anno più di me.
Era un lumbard. Mio zio Giulio, suo padre, era partito da giovane (così
come avevano poi fatto altri miei zii e come aveva fatto mio padre) per
andare in Lombardia a cercare lavoro. I Leghisti fingono di
dimenticarlo, ma i Veneti erano definiti i “terroni del nord”, gente
povera che per sopravvivere cercava fortuna altrove.
Era andato in Brianza, aveva trovato lavoro e aveva trovato l’amore. Con
mia zia Riccarda aveva comprato casa a Castellanza e lì era nato
Rinaldo. Ma alle volte accade che non sono sufficienti l’amore, i
progetti, le speranze per mettere su famiglia, almeno la famiglia felice
che tutti si augurano. Nell’alchimia dell’amore capita che il sangue
esige di dire la sua e scombina i piani, il sangue di Giulio e di
Riccarda avevano qualcosa di cui lamentarsi l’uno dell’altro e Rinaldo
aveva pagato la lamentela. All’apparenza era una persona normale, ma il
suo cervello non cresceva, rimaneva quello di un bambino, così mi aveva
spiegato mamma. Oggi credo di poter affermare che soffriva di una forma
di autismo.
Avevano avuto anni dopo anche una figlia, Roberta, pure lei aveva dei problemi, ma era rimasta al mondo pochi mesi.
Zia Riccarda aveva deciso di crescere Rinaldo come un qualsiasi altro
bambino. Non che non fosse cosciente dello stato del figlio, solo non
voleva isolarlo, chiuderlo tra quattro mura con gente competente, voleva
comunque dargli ogni possibilità che avrebbe poi affrontato con tutti i
suoi limiti. Ma sapeva che erano tanti, anche se non lo dava a vedere.
Una volta mamma si era lamentata di me, (avevo pochi anni) non so per
quale motivo, con lei. Lei le aveva subito risposto di non lamentarsi,
almeno aveva un figlio normale.
Zia era il motore della famiglia, mio zio mi ha dato sempre
l’impressione di essere uno che viveva al traino, incapace di decidere
alcunché, incapace di gestire qualsiasi situazione.
Rinaldo aveva frequentato tutte le scuole dell’obbligo e aveva trovato pure lavoro. Faceva il magazziniere.
E con la famiglia aveva viaggiato, aveva girato il mondo, aveva conosciuto luoghi e Paesi che io credo non avrò mai l’opportunità di visitare. Era riuscito pure a prendere la patente di guida. Mi son sempre chiesto chi siano stati quei disgraziati. Una volta ero stato a Castellanza ed ero salito sulla sua Peugeot, l’unica macchina che non causava il vomito a mia zia, per andare non mi ricordo dove. Guidava lui. Mi ricordo che a un incrocio mi aveva ripetuto fino alla noia che prima si guarda a sinistra e poi a destra, prima a sinistra e poi a destra. La strada era libera, lo avevo invitato a partire, ma lui stava fermo, non l’avevo vista l’auto laggiù? Cavolo, era ancora a Busto Arsizio, ci avrebbe impiegato venti minuti prima di arrivare.
Aveva una grande memoria, leggeva molto e quello che leggeva rimaneva ben immagazzinato nella sua testa, era un’enciclopedia ambulante, così come gli rimanevano bene in testa molti episodi della vita.
Era venuto in villeggiatura da noi una quindicina di giorni. Dormiva
in camera con me, avevo quindici anni. Un giorno mia sorella, di sette
anni, mi aveva chiesto come si riproducevano i pesci. Oh bella, come si
riproducono i pesci? Avevo cercato inutilmente in una enciclopedia, poi
l’illuminazione: «Rinaldo, come si riproducono i pesci?». E Rinaldo era
partito con la spiegazione. Quando cominciava a parlare non lo fermavi
più, io almeno non ci sono mai riuscito. Continuava come una nenia con
il suo accento lombardo a dire cose e poi si perdeva, se facevi domande
non rispondeva, prima doveva terminare il suo pensiero, ed era sempre un
pensiero molto, molto lungo, elaborato, inesauribile, trovava agganci
per dire altro e altro ancora. Andava a finire che lo lasciavo dire e
pensavo ai fatti miei sopportando quel ronzio di sottofondo.
In quei giorni lo portavo in giro con la compagnia di amici che avevo.
Un’esperienza nuova per lui muoversi in gruppo con dei coetanei. Una
sera mi aveva chiesto se tutti quei ragazzi erano amici miei. Gli avevo
risposto di sì. Ma andavo in giro con tutti loro? Erano una decina. Sì.
Si era fatto serio. Mi aveva detto che ero fortunato. Poi, timidamente,
mi aveva chiesto: «E adesso sono anche miei amici?» Mi aveva commosso,
non pensavo che vivesse in così grande solitudine. «Ovviamente sì»,
avevo risposto.
Poi aveva sempre dei grossi progetti in mente. Eravamo entrambi ospiti di nonna a Ceggia, andavamo tutto il giorno tra i campi con lo zio Angelo. Ci aveva coinvolto nella raccolta delle barbabietole che lui eseguiva a mano, non chiamava i mezzi meccanici, non lo so il motivo. Mamma stava lavorando stagionalmente nella fabbrica Eridania, producevano zucchero. Un giorno Rinaldo le aveva chiesto se poteva portargli a casa un pezzettino di fabbrica che voleva produrre lo zucchero da sé.
Era stato durante quel periodo che mi aveva sorpreso zia Riccarda. Ricordo il suo continuo e imperativo «Uè, giovanotto!» che rivolgeva al figlio per richiamare la sua attenzione, spesso era assorto nei suoi pensieri, ma lo usava anche con me, per abitudine (spero). Era pomeriggio stavamo tutti seduti, io Rinaldo e la zia, sotto la pergola di uva moscata e zia, mentre stava rammendando, erudiva Rinaldo alla sessualità. Ero a disagio, mamma non mi aveva mai spiegato niente, io ho dovuto arrangiarmi con le notizie che arrivavano dagli amici e dai giornaletti che alle volte ci capitavano tra le mani. Gli stava spiegando che il suo corpo era nell’età della trasformazione, che gli si sarebbero abbassati i testicoli, se già non lo erano, sarebbe spuntata la peluria e avrebbe cominciato a sentire strani pruriti, sarebbe cambiata la voce, da quel momento sarebbe diventando un uomo fertile. Rinaldo ascoltava attento, io con disagio. La zia mi aveva chiesto se avevo già la peluria, dovevo essere diventato rosso scuro, avevo risposto di sì. «Vedi tuo cugino è già avanti in questa fase». E già, avevo i pruriti che dovevo confessare al prete io.
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