Ho sognato che mi cadevano i denti (4 di 6)

Rinaldo – terza parte

Rinaldo aveva perso tutto ma aveva trovato i familiari disposti a sostenerlo. Trascorreva sei mesi con una zia e sei mesi con l’altra, nessuno gli aveva fatto mancare niente, soprattutto l’assistenza medica, non godeva di buona salute. Rinaldo non si era lasciato sopraffare dal dolore, aveva girato in lungo e in largo il suo nuovo paese, molti lo conoscevano, era andato anche a cercarsi un lavoro.
E il lavoro era stata la prima bella sorpresa. Il posto di magazziniere a  Castellanza lo aveva trovato solo perché il proprietario aveva avuto un figlio come Rinaldo, morto qualche tempo prima. Mosso a pietà, ben sapendo che stava assumendo un debito, lo aveva inserito nella sua struttura come magazziniere.
Ma per lo zio Roberto, il più giovane dei fratelli che aveva promesso di averne cura, le sorprese non erano finite. Aveva  scoperto che non avevano mai avviato pratiche per riconoscergli una disabilità. Aveva avuto il suo bel da fare, lui e la moglie, per ricostruire tutte le pratiche perché gli fosse riconosciuto il suo stato e quindi accedere a un sostegno statale o a poter avere qualche priorità per accedere a un lavoro nel pubblico impiego.

Aveva cominciato ad affezionarsi ai cugini che aveva in paese, quello più vicino alla sua età aveva undici anni di meno, qualche domenica se lo portavano con loro, aveva legato soprattutto con i figli dello zio Roberto, in modo particolare con Sabrina, andava all’Università, con lei poteva discutere alla pari, avevano molte conoscenze, e poi era giovane, cordiale, femmina e probabilmente a lui la figura della donna mancava moltissimo.
Tanto che delle cugine degli zii avevano gridato allo scandalo quando, bisognoso di punture, si era recato da loro, che erano delle infermiere in pensione, per le iniezioni. Quando si era slacciato i pantaloni erano rimaste sconvolte: indossava dei collant!
Una zia lo aveva avvicinato e gli aveva chiesto se era vero. Sì, era vero, ma che male faceva a indossare dei collant? Chiedo a tutti: che male faceva? Non faceva del male rispose la zia, solo che il mondo non era pronto ad accettare una cosa simile, poteva indossarli, ma se doveva recarsi da un medico, farsi delle iniezioni o comperarsi un paio di scarpe, che lo evitasse. Messaggio immagazzinato.

Se c’era una cosa che Rinaldo amava era mangiare, mangiare tanto e mangiare bene. Era lento, ma mangiava con continuità, non si fermava mai, se qualcuno continuava a buttargli roba sul piatto lui mangiava, non diceva mai basta. Quello era rimasto il suo unico grande piacere.
Ma la salute cagionevole gli stava rubando anche questo. Le reni non depuravano più: dialisi. E con la dialisi una dieta ferrea, addio a tutto, addio ai gozzovigli. A giorni alterni la vita era vincolata a una macchina che gli depurava il sangue, lunghe ore che lui occupava leggendo.
Ma anche in quell’ambulatorio Rinaldo aveva dispensato tutta la sua umanità, aveva chiesto informazioni su tutti e aveva immagazzinato. Sapeva farsi voler bene perché era rimasto semplice come un bambino. Era premuroso, aveva parole buone e ricordava le cose: «Dottore, deve comperare dei fiori, oggi è il compleanno della sua signora, e stasera si va a cena in un bel ristorante!»
Gli avevano trovato lavoro presso il comune, qualche ora, come… boh! Che incarico poteva mai ricoprire? Portare della posta da un ufficio all’altro, non molto di più.

Poi un giorno era più svogliato del solito, non si sentiva bene, anche zia Daniela lo vedeva strano. Serviva forse uno strappo alla regola: lo voleva un caffè? Altro che. Ah, che aroma! Ah, che sapore! Ah, che piacere!
Ma non stava bene, era partito per la solita dialisi. E in ambulatorio aveva accusato ancora della sofferenza, era stato soccorso e, vedendo la gravità della situazione, erano stati chiamati i parenti. Lo avevano ricoverato.
La sera gli zii erano  attorno al suo letto, sembrava avesse recuperato le forze, era sereno, lui desiderava dormire, ma non voleva chiudere gli occhi, voleva prima salutare una persona. Solo dopo che l’aveva vista entrare aveva potuto perdonare il mondo per avergli tolto la madre, il padre, il piacere di mangiare, l’aver lasciato Castellanza: Sabrina era arrivata, era lì a chiedergli come stava. A lei aveva donato l’ultimo sorriso, al volto di donna che avrebbe portato con sé.
Aveva chiuso serenamente gli occhi, poi la voce più bella del mondo che gli aveva ordinato: «Uè, giovanotto, alzati, si va!»

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