Ho sognato che mi cadevano i denti (6 di 6)

Io

Era il giorno prima di ferragosto. La notte avevo sudato parecchio e la mattina avevo un gran peso all’altezza dei bronchi. E ti pareva, combini il sudore con l’umidità e ci si ammala. Respiravo con fatica, sudavo molto. Ma sarebbe terminata presto anche l’estate. Ormai, bastava una pioggia e il clima avrebbe deviato a temperature più consone alla mia sopportazione. Il medico aveva il turno al pomeriggio, va bene, intanto mi sarei recato al lavoro, se peggioravo al pomeriggio sarei andato da lui.
Ma la fatica a respirare era tanta, dovevo essere ben chiuso, pensavo. Sentivo la pressione del sangue  battere su ogni vena. Pazienza, avrei lavorato con molta, molta calma.
Dovevo costruire un impianto in una nuova via, ma temevo che i cavi telefonici non fossero ancora portati, non vedevo colonnine in giro, magari, come qualche volta fanno, li avevano collocati con delle terminazioni dentro un pozzetto. Avevo provato ad alzarne uno fatto a quattro spicchi, ma non ci riuscivo. Avevo visto poco prima passare un collega, l’avevo chiamato chiedendogli se poteva venirmi a dare una mano, roba di un minuto. Poco dopo era lì.
«Non riesco ad alzarlo, è nuovo, ma non si muove», ma lui lo aveva aperto senza problemi. Ero rimasto perplesso.
Avevo continuato la giornata e il peso si faceva sempre più puntuale, il respiro faticava, la pressione ballava la techno e la sudorazione era insistente.
A pranzo ero andato a casa, ne avevo approfittato per andare a letto per rilassarmi, mi sembrava di migliorare. Mezz’ora dopo ero tornato al lavoro, ma le cose peggioravano, avevo sistemato in due e due quattro un sopralluogo, e in affanno, mi ero diretto agli uffici del mio responsabile, che non erano lontani. Era ancora a pranzo. Mi ero seduto sulla scrivania di fronte alla sua, ero sfinito. Arrivò dieci minuti dopo.
Lo avevo informato che sospendevo il lavoro e me ne andavo dal medico, dovevo essermi beccato un’influenza o qualcosa del genere. Lui mi guardava preoccupato, mi aveva chiesto se volevo andare al Pronto Soccorso, avevo risposto di no, stavo male, ma ero così dal mattino, con calma arrivavo a casa. Insisteva per farmi accompagnare da qualcuno, aveva detto che ero pallidissimo. Nessun problema, mi sarei arrangiato.
Mentre guidavo verso casa, col cuore a mille,  avevo cominciato ad accusare un dolorino sulla spalla sinistra e stava cominciando a interessarmi il braccio. Oh, porca miseria, era quello che pensavo? Avevo accelerato per arrivare quanto prima a casa.
Ero madido, ero andato a farmi una doccia veloce. Uscito mi sentivo incapace di respirare, cercavo l’aria ma non la catturavo, avevo come un senso di vomito, mi girava tutto. Mi ero disteso sul letto sotto lo sguardo preoccupato di mia madre e avevo cominciato a sudare copiosamente. Era entrata in camera mia figlia, avevo trovato la forza per dire a mia madre: «Mandala via!»
Erano stati momenti terribili e infiniti, poi il respiro mi era tornato e la sudorazione si era fermata. In quel mentre era ritornata dal lavoro anche mia moglie. Voleva portarmi in ospedale, non me la sentivo di alzarmi. Aveva chiamato il medico. Poco dopo era lì. Nel frattempo mi ero calmato. Lui mi aveva detto se mi sentivo le forze, altrimenti chiamavano un’ambulanza.
«Non è influenza, hai il cuore che sta facendo scherzi, bisogna andare subito al Pronto Soccorso».
Al Pronto Soccorso mi avevano dato un bel codice prioritario.
Mi avevano fatto distendere su un lettino e una giovane dottoressa era venuta con un macchinario eco qualcosa a osservare il cuore.
Poi era tornata con una pasticca: «La tenga sotto la lingua fino a che si scioglie», mi aveva ordinato con un accento siciliano.
Poco dopo il cuore era tornato a fare il pazzo e avevo ripreso a sudare.
Mi aveva chiesto che cosa mi sentivo.
«Mi vien da vomitare».
«Si sente male?»
«Mi vien da vomitare».
«Si sente male?>
«Mi vien da vomitare».
«Ha le nausee?», avevo risposto di sì con la testa. Con i medici bisogna essere precisi.
Avevano spinto il lettino fino in ambulatorio, mi avevano messo con la testa in giù e gambe all’aria, mi avevano spogliato e conficcato degli aghi, ma io sentivo che il cuore ormai stava andando per i fatti suoi, il respiro era fuggito, tutto girava.
Non era possibile, stavo morendo? In un modo così stupido? No, non io… i bambini… che cosa sarebbe accaduto ai bambini? No, no, no, non poteva essere vero! Non a me!
Vedevo gli infermieri e la dottoressa procedere decisi, stavano facendo chissà che cosa, ma quel chissà che cosa mi aveva riportato poco dopo il cuore a battere in maniera più corretta, l’aria era tornata nei polmoni, le convulsioni erano sparite.
Ero rimasto solo con un infermiere che aveva cominciato ad asciugarmi il corpo madido.
«Dev’essere scaduta la garanzia», avevo detto all’infermiere.
«Mi sa di sì, ma non è un problema, l’anno scorso è capitato anche a me e sono qui».
Mi avevano portato in unità coronarica, attorno al letto c’erano dei monitor, credevo che certe cose esistessero solo nei film americani, mi avevano appiccicato ventose ovunque, conficcato delle flebo e buon riposo.

Il mattino successivo erano arrivate delle infermiere generiche per lavare i pazienti. Arrivate da me, dopo avermi lavato faccia e braccia, mi avevano chiesto se volevo il bidè e cambiarmi le mutande. Non potevo alzarmi ero pieno di fili e ventose, mi avrebbero lavato e cambiato loro. Avevano letto il mio imbarazzo e mi avevano assicurato che loro erano abituate… «Voi sì, ma io no». Comunque avevo lasciato fare. La signora che mi lavava mi aveva detto d’essere una compaesana, mi aveva già visto, ci mancava solo questa notizia, ora il disagio era completo.
Ero rimasto in osservazione. L’indomani il reparto era presidiato dalla dottoressa siciliana, quella a cui dovevo la permanenza su questo pianeta, le avevo chiesto delle informazioni sul mio caso. Stavano ancora facendo accertamenti, ma per il momento poteva dirmi che ero apiretico, bla bla bla, bla bla bla… Non avevo seguito il discorso, ero fermo ad apiretico: che cavolo significava? lei continuava la sua esposizione aggiungendo parole a parole in maniera monotona, come davanti a un esame universitario. Ah, apiretico, ecco che cosa significa… ma non potevi dire che non ho la febbre?  Aveva concluso la sua diagnosi. Era lì ferma che mi guardava. Volevo dirle: «Ottima esposizione. Accetta un ventotto? Se avesse usato termini più semplici che ogni paziente può capire le avrei dato trenta». L’avevo comunque ringraziata, se avevo potuto ascoltarla, se ero al mondo, lo dovevo al suo bagaglio di parole difficili.
Il giorno dopo mi avevano detto che ero fuori pericolo (o serviva il letto) e mi avrebbero trasferito in cardiologia. Probabilmente era una pericardite, ma servivano altri esami.
Mi avevano messo in camera con un signore che aveva passato i settant’anni, una persona tranquilla, semplice. Gli avevano portato un televisore ed era perennemente acceso, c’erano le olimpiadi. Mi ero ripromesso di non seguirle. Mi indispettiva che il mondo avesse permesso alla Cina di organizzare un evento che dovrebbe essere un messaggio di comunione tra i popoli espresso attraverso lo sport. In Cina i diritti civili sono un optional che nessuno può acquistare. E questo mi aveva fatto capire il vero senso delle Olimpiadi, una vetrina importante per il mercato sportivo: sai quante tute e scarpe da ginnastica si possono vendere in un Paese con un miliardo e duecentomilioni di persone? No, per me niente olimpiadi.
E invece mi sono bevuto tutto, ma tutto tutto.
L’anziano signore andava spesso a camminare su e giù per il corridoio, quando tornava mi chiedeva:
«Ha gareggiato qualche italiano?», se rispondevo di sì, la domanda successiva era: «Ha vinto?», se la risposta era affermativa commentava: «Allora è stato bravo!», altrimenti, anche se era arrivato secondo, scuoteva la testa deluso e commentava con disappunto: «Ah, gli Italiani!».

Serviva di una coronarografia, così mi avevano detto, programmata per tre giorni dopo. Il vecchio mi aveva detto che anche lui aspettava quell’esame, era da venti giorni che glielo rimandavano.
Il giorno precedente all’esame mi avevano portato un foglio informativo, dovevo leggerlo e firmarlo. Spiegava in che cosa consisteva l’esame, gli eventuali rischi e dovevo firmare l’accettazione di sottopormici. Santo Dio, se ne uscivo vivo era un vero miracolo! Mi aveva allarmato, proprio come le hostess quando prima di partire con l’aereo ti spiegano tutte le disgrazie che possono accadere durante il viaggio, in quale modo si potrebbe morire, e ogni volta io sono convinto che accadranno e mi raccomando l’anima a Dio. Avevo riconsegnato il foglio all’infermiera, firmato. L’avevo letto? Purtroppo sì. Mi aveva detto che dovevo stare tranquillo, era un esame di routine. Già, ma con le sue belle percentuali di insuccesso.
La sera alle nove era entrato un infermiere, non per le solite iniezioni  o pastiglie, quelle le avevamo già prese. Aveva con sé dei rasoi. Anche il mio compagno di stanza aveva l’esame per l’indomani. Ci aveva chiesto di spogliarci, ci doveva depilare dall’ombelico fino al ginocchio. Altro imbarazzo. Si era munito di guanti e aveva iniziato a radere. Anche i gioielli, non doveva rimanere un solo peletto. Guardavo altrove, sì, lo so, lui era abituato, ma sentivo imbarazzo quando mi spostava il pene a destra e a sinistra, mi sollevava i testicoli, passava e ripassava con attenzione. Terminato di tosarmi, era passato all’anziano, io ero andato a farmi una doccia, per eliminare ogni presenza di peletti. Mi ero guardato allo specchio, avevo solo pigiami con i pantaloncini corti  e spuntavano delle ginocchia bianchissime e sotto ero scuro, sembrava che portassi i calzini lunghi. Semplicemente ridicolo. Volevo chiedere al ragazzo se, già che c’era, mi depilava tutta la gamba, ma aveva già precisato, intuendo e anticipando la domanda, che non era un estetista.

Il mattino seguente avevano portato via l’anziano. Io invece guardavo le gare e aspettavo, aspettavo e il nervoso aumentava. Alle quattordici mi avevano avvisato che si rimandava di tre giorni, erano arrivate delle urgenze, persone con l’infarto, avevano assolutamente la priorità. Certo, lo capivo. L’anziano, sereno per aver fatto l’esame tanto atteso, aveva detto ridendo: «Da qui ci lasciano uscire solo in orizzontale!» A me l’esame l’avrebbero spostato ancora di altri tre giorni, aumentando l’impazienza, ma che si  poteva fare?  Era un esame che poteva salvare una vita e se arrivavano delle emergenze… e i giorni passavano.

Dopo sei giorni dalla prima depilazione, verso sera, era entrata in camera un’infermiera bellissima e mi aveva chiesto se erano cresciuti i peli, poca cosa avevo risposto, allora si doveva fare un altro passaggio col rasoio. Come? Ero turbato, non avrei mica dovuto sottopormi a una sua rasatura? Oddio! Ma che razza di figura avrei fatto? Se si metteva a spostarmi il pene e a toccarmi i testicoli… Oddio, mamma che imbarazzo! No, forse avrebbe chiamato un maschio, ma sì, dai, avrebbe chiamato un maschio. Sicuramente i maschi non depilano le pazienti e le femmine non depilano i pazienti, sì dev’essere così. E invece era ritornata lei con tre rasoi usa e getta. Oddio a che figuraccia mi sarei sottoposto! A che cosa dovevo pensare per tenerlo quieto?
«Si bagni con l’acqua e poi ripassi dove i peli sono spuntati. Gliene lascio tre, ma con uno dovrebbe fare tutto!», che fortuna, avevo evitato di essere toccato da una donna! Avevo capito come il contesto giochi una parte fondamentale: chi non avrebbe gradito essere toccato da lei? Ma non lì.
Finalmente mi avevano fatto l’esame. Mi avevano infilato nell’arteria la telecamerina e da un monitor si poteva vedere tutto, anche quando iniettavano il contrasto. Che strano, ma quello che vedevo nei monitor era il mio corpo? E quello era il mio cuore dispettoso? Incredibile.
Ero tornato in reparto. L’anziano si stava vestendo, se ne ritornava a casa. In verticale. Tanti auguri! Anche a lei!
Avevo passato la notte da solo, senza il fastidio del televisore. Mentre stavo per addormentarmi mi ero svegliato di soprassalto, mi sembrava di non riuscire a respirare.  La cosa si ripeteva a ogni perdita di coscienza. Avevo chiamato soccorso. Le infermiere avevano fatto intervenire il medico; dopo che gli avevo spiegato il problema  aveva ordinato alle infermiere un medicinale e mi aveva salutato. L’infermiera mi aveva detto che le gocce mi avrebbero tranquillizzato, ero solo nervoso. Avevo provato a rilassarmi e, sotto l’effetto delle gocce, ero riuscito a dormire.

Il pomeriggio seguente il letto vicino era stato occupato da un uomo insopportabile, un vero orco. Lo avevano accompagnato la moglie e la figlia, che vivevano in soggezione e sembravano represse da quel marito padre padrone. Urlava, comandava: «Fai», «Alzati», «Prendi», «Muoviti», il grazie non era presente nel suo vocabolario. Per spostarsi doveva aiutarsi con un trespolo e sbatteva non curante ovunque e disprezzava tutto e tutti. Non sono andato al di là di qualche frase convenevole e, per evitarlo, me ne andavo spesso con mio lettore mp3 nella saletta di attesa, davanti all’unità coronarica, vicino alla finestra che dava sul Pronto Soccorso. Non era una bella visione, ma sempre meglio dell’orco.

In quei giorni i parenti e qualche amico erano venuti  a farmi visita. Mio zio Roberto e mia zia Daniela erano venuti due volte nel giro di due giorni. La seconda volta era perché avevano partecipato a una messa che il centro dialisi aveva voluto per ricordare Rinaldo a un mese dalla morte e li avevano invitati.  Rinaldo, ovvero la semplicità che contagia i cuori. Rinaldo che non è mai stato un paziente in dialisi, ma un amico che infermieri e dottori curavano.
Anche i bambini erano venuti più volte a trovarmi. Ero felice di vederli, ma mi faceva male, mi riportavano a tristi ricordi. Mio padre era un cuoco, non aveva la patente, si spostava solo con i mezzi pubblici. D’inverno andava a lavorare in qualche ristorante perso per la provincia o per la regione, veniva a casa qualche ora solo nei giorni di chiusura. Quando non lavorava era in ospedale, aveva anche lui il cuore ballerino. E mi ricordo di papà soprattutto nelle corsie di un ospedale, in preda al dolore che mascherava per non turbarmi. Rivedere i miei figli che venivano a trovarmi, che si annoiavano, che giocavano e venivano ripresi che non si poteva, che erano in ospedale, mi riportava a quei dolorosi giorni. Ero felice di vederli ma come li baciavo desideravo che li portassero via subito.
Tra le persone che erano venute a trovarmi c’era mia zia Nelia (diminutivo di Cornelia) col marito. Abitano a Grugliasco, in provincia di Torino (sempre per la storia dei terroni del nord), tornano da queste parti per i matrimoni o per i funerali. Ma di matrimoni in vista non ce n’erano. Io ero appena uscito dall’unità coronarica. Come l’avevo vista entrare in camera avevo avuto un sussulto e l’avevo accolta con un: «Che cazzo ci fai tu qui?», non c’erano matrimoni in vista, poteva essere arrivata solo per un funerale e non era morto nessuno… al momento!
Mi aveva spiegato che erano arrivati invitati dallo zio Beppino che per la domenica successiva aveva organizzato una grande festa di compleanno, essendo lui il primo dei fratelli ad aver traguardato i settant’anni, gli altri erano tutti morti prima. Papà a quarantadue.  Ai parenti che erano venuti i giorni seguenti avevo chiesto se era vera la storia della festa, tutti avevano confermato. O era vero o si erano messi d’accordo.

L’ultima sera l’avevo condivisa con l’orco. Era  tutto un lamentarsi, non per i dolori, ma perché non aveva le due serve vicino e doveva arrangiarsi.
Anche quella sera non ero riuscito ad addormentarmi, al momento del sonno mi prendeva un’ansia che non riuscivo a spiegare. Avevo chiamato soccorso. Avevo spiegato all’infermiera che avevo il solito problema. Era tornata per misurarmi la pressione, e l’orco insisteva che doveva dare retta a lui, che aveva un sacco di problemi, doveva aiutarlo, insomma, era un malato anche lui, doveva ascoltarlo.  Ma lei non gli dava retta, la pressione era a posto, aveva fatto ritorno con le solite gocce e poi era andata dall’orco che aveva il pappagallo da svuotare.
L’indomani alle sei era passata la signora delle pulizie, aveva pulito la stanza e il bagno ed era andata oltre. L’orco si era alzato, con il pappagallo pieno in mano, aveva appoggiato sul trespolo l’asciugamano e si era diretto in bagno.
Avevo aspettato che le infermiere passassero per il solito controllo della pressione e della temperatura, il solito prelievo, la consegna delle pastiglie, quindi mi ero diretto in bagno pure io. C’era un lago di piscio ributtante. Quel pezzo di merda non so che cosa avesse combinato, ma non si era neppure degnato di chiamare qualcuno, scusarsi e far pulire. Avevo raggiunto la signora delle pulizie e le avevo chiesto la cortesia di ritornare.
Dovevo litigare? No, avrei semplicemente aspettato la visita dei medici, se mi dimettevano, com’era probabile, bene, altrimenti avrei chiesto che mi cambiassero di stanza e, se non era possibile, avrei spinto il mio letto in corridoio, io con quello lì non ci volevo più stare.
Per fortuna mi dimettevano. Ero andato in saletta d’attesa col mio lettore mp3 e aspettavo che un’infermiera o un medico mi chiamassero per il foglio di dimissione. Mi chiamarono verso mezzogiorno.
Confermato, era pericardite. Non avevano individuato il virus, non si conoscono ancora tutti, ma tutto faceva pensare alla pericardite. Dovevo seguire una cura, il primo mese questi medicinali, poi questi. Un controllo più avanti nel tempo. Era tutto. Un momento, per quanto tempo dovevo prendere le medicine? Per sempre.
Per sempre? Mi ero sentito invecchiato di vent’anni anni. Per sempre.

Mamma mi aveva confidato che le sembrava strano che non mi fosse ancora capitato qualcosa. Le avevo chiesto perché. Perché lei i problemi di cuore aveva cominciato ad averli a quarantacinque anni e buon sangue non mente.
Il giorno dopo ero andato dal medico che sostituiva il mio, mi ero fatto dare le ricette e dei giorni di malattia che copriva la settimana, poi mi sarei recato dal mio che rientrava dalle ferie.
Mi aveva dato anche delle gocce per gli attacchi di pan… l’ansia che mi veniva la notte. Passare la vita con calmanti non mi andava. Le avevo prese solo per due sere, poi mi ero imposto di vincere quelle stupide ansie, dopo una settimana avevo cominciato ad addormentarmi naturalmente.
Il lunedì successivo ero andato dal mio medico. Mi ero fatto dare le impegnative che servivano, avevo consegnato la risposta dell’ospedale e gli avevo detto che non mi servivano altri giorni, mi sentivo bene.
Lui dopo avermi guardato serio aveva risposto: «Allora tu non hai capito che cosa ti è successo. Io ti do altri dieci giorni».
Certo che avevo capito che cosa era successo.
Avevo sognato che mi cadevano i denti. La bocca era piena perché due denti enormi la occupavano e muovevo a fatica la lingua. Ma ce n’era un terzo che ballava e io spingevo perché cadesse, ma non c’ero riuscito, era ritornato fermo al suo posto.

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