«Certo che te le vai a cercare tutte tu!», sentenziò Attilio, il mio amico, con disappunto. Non riuscivo a dargli torto: ma che ci potevo fare?
Avevo sedici anni, erano anni terribili, l’anno prima avevano ucciso Moro e la sua scorta, l’apice dei delitti politici di cui non si vedeva la fine. Mentre le Brigate Rosse escogitavano delle strategie per sovvertire lo Stato, io e i miei amici provavamo ad avvicinarci all’altro sesso organizzando festine domenicali e suonando “Love to love you, baby” (era eccittante quella canzone!), “Stayn’ alive” e molte altre, eravamo in piena Discomusic.
Non sono stati anni piacevoli, le ragazzine erano terribilmente selettive, taglienti, altezzose, non ero un tipo da copertina e con la faccia degna di un vinile. Dalle prime festine avevo capito che avrei dovuto sudarmelo lo stare al mondo. Affinai intelligenza e ironia. L’ironia la riversavo soprattutto verso me stesso, per sopravvivere, per non andare a fondo, per non deprimermi.
Sono stati anni faticosi, giocati al limite, ma ne sono uscito forte, malconcio certo, però vivo.
Era capitata in mezzo alla nostra compagnia portata da una sua amica che qualcuno aveva invitato alla festina. Così le chiamavamo, festine, cose semplici: bibite, salatini, dolcetti, musica. Ma l’intento era far ballare le ragazze (a noi non piaceva) per poi poterle limonare. Su questo secondo punto le più erano restie, era faticoso guadagnarci la limonata.
Lei era diversa, non mi trasmetteva il vuoto delle altre, il nulla che si esprimeva in movenze che imitavano i grandi o le risatine cretine. Lei aveva qualcosa.
Ormai avevo imparato che se mi avvicinavo loro facevano un passo indietro. Col tempo la sofferenza si era trasformata in un vantaggio, mi aspettavo il rifiuto per cui, senza illusioni, ci provavo. Mi avvicinai alla sconosciuta, ai miei amici non piaceva, era in effetti diversa dalle altre, strana. Avevo cercato un argomento, lei restava sulle sue, fino a che non le parlai di musica. Devo averle detto che quella che ascoltavamo non lo era, che la musica vera la suonano altri gruppi, lei spalancò gli occhi, quasi rincuorata: «Allora andiamo via da qui? Andiamo a passeggiare?»
Con me? Lo stava chiedendo proprio a me?, vedendo che non rispondevo mi chiese «Ti va?»
Sì, mi andava. Trascorremmo il pomeriggio vagando senza meta per il paese, ciò che ci interessava erano i sentieri che uno raccontava all’altra.
I giorni successivi ci vedemmo ancora. Dove? In biblioteca, ovvio. Lei aveva una parlantina sciolta e colta, usava termini che mi mettevano in difficoltà, li esprimeva con proprietà, colorava i discorsi con immagini e citazioni che riflettevano tutta la mia assenza di sapere. Mi metteva a disagio, lei parlava con la foga del grande oratore, io a mala pena sapevo mettere assieme soggetto, verbo e complemento.
Al primo appuntamento in biblioteca la trovai dietro una linea difensiva di tomi e volumi che mi fecero impressione, mi sentivo terribilmente inadeguato al posto e alla persona che mi aspettava. Se ne stava a testa bassa a scrivere appunti e a consultare quei libri. Il tema che legava i libri era il Comunismo: idee, pensatori, storia mondiale. Accanto a sé aveva una risma di fogli già scritti, il frutto di otto mesi di lavoro: aveva quattordici anni. Quell’incontro mi fece sentire il ronzio dell’ignoranza vagare nel cervello. Ma una cosa mi è rimasta chiara, nitida, bella di quell’incontro: le sue labbra. Belle come la rivoluzione cubana, carnali come ‘Bandiera rossa’, sensuali come i picchetti delle suffragette. Quelle labbra al momento erano irraggiungibili, dovevo superare e vincere la cortina di ferro dell’ideale.
Armato della mia plebea ignoranza cominciai ad attaccare quel bastione, le dissi che non capivo il senso di impiccarsi in quelle elucubrazioni rivoluzionarie. Si stava imbottendo la testa di concetti storici e politici, ma aveva il cuore arido e sentivo che implorava attenzione.
Lei parlava della rivolta delle masse, io le esprimevo la bellezza del suo sorriso, una perla così rara che rendeva felice chi lo poteva vedere. Lei articolava con perizia la presa del Palazzo d’Inverno, io la disarmante bellezza di “Amore che vieni, amore che vai!”. Non si scomponeva, restava fiera e rigida tra le barricate dei suoi libri, sguardo dritto mentre faceva sventolare la bandiera rossa.
Passavano così i nostri incontri, con la sua fede nel cambiamento popolare e la mia simpatia per l’umanità, al di là del colore.
Poi, in un giorno di Primavera mentre ce ne stavamo seduti a una panchina a goderci i pizzichi del sole, estrasse dal suo zaino a tracolla due risme di appunti.
«Mi faresti un favore?»
«Certo!»
«Li butti via? Io non ci riesco» e me li mise in mano.
Era quello che desideravo da sempre, buttare giù la barricata proletaria che mi impediva di arrivare alle sue labbra e ora, ora mi sembrava un delitto. Non erano fogli, erano pezzi di vita, della sua vita. Balbettai qualcosa, la invitai a ripensarci, era un lavoro interessante (ma non l’avevo letto), però lei, affranta, insisteva.
«Buttali, ma lontano, non voglio sapere dove.»
«Ve bene», mi alzai alla ricerca di un posto lontano dalla sua vista dove gettare Marx, Engels, Gramsci e tutti gli altri. Girai un po’ per il paese, mi allontanai dalla piazzetta dove lei era seduta, girai alcune viuzze fino a non vederla, mi fermai presso i bidoni davanti alle scuole e vi buttai dentro tutte le rivoluzioni. Mi dispiaceva, ma finalmente non avevo più niente che mi divideva dalle sue labbra e tornai alla panchina.
Non c’era, non c’era più e non l’ho più rivista. Avevo provato a cercarla, anche nei giorni successivi. Era una ragazzina riservata, strana, nessuno le si avvicinava, l’amica che l’aveva portata alla festa si era trincerata in un alleato silenzio.
Ora che era diventata fragile, vulnerabile, le sarei stato volentieri accanto, mi sarebbe piaciuto scoprire con lei l’alba dell’avvenire. E invece era uscita dalla mia vita, le avevo ucciso i suoi sogni, non si sta assieme a un assassino.
«Certo che te le vai a cercare tutte tu!», forse è vero, pensai. In quei giorni le radio trasmettevano con insistenza una nuova canzone e io ci vedevo lei: “Albachiara”.