Quando entrò per la prima volta in classe nostra, provai il disagio di dover misurarmi con uno sconosciuto alto, magro, leggermente ingobbito, vecchio – secondo i miei parametri di allora, aveva 35 anni, 20 più dei nostri -, decifrare attraverso i suoi modi se sarebbe stato un professore di matematica severo o alla mano.
Alla fine della lezione, quando uscimmo per la ricreazione, eravamo tutti concordi che il Provveditorato ci aveva mandato un insegnante fuori di senno. Ridevamo e lo raccontavamo agli altri studenti, coloro che lo avevano avuto prima di noi lo confermavano: era pazzo!
Ma quella prima lezione riuscii ad apprenderla solo anni dopo, e non era pazzo, era un ottimo insegnante, amava la matematica e voleva farcela amare spiegandoci, già dalla prima lezione, che dovevamo approcciarci con umiltà, imparare un metodo, averne rispetto.
La prima ora trascorsa assieme la dedicò a spiegarci come dovevamo scrivere i numeri: lo zero doveva assomigliare a un’ellisse con il semiasse maggiore posto in verticale; il numero uno veniva rappresentato con una linea verticale e dall’estremo superiore partiva una grazia, una retta a 45° verso il basso e verso sinistra lunga al massimo un quarto delle dimensioni della linea; e via via tutti gli altri.
Una lezione di grafica o di stile, ma secondo noi era sintetizzabile nel dito indice che picchiavamo più volte sulla tempia: stavamo ascoltando un pazzo!
Eppure ci stava dicendo che non potevamo giocare con gli strumenti che ci venivano assegnati, dovevamo portarne rispetto, averne cura, i numeri andavano scritti senza fronzoli o inutili linee ridondanti: serviva semplicità.
Il pazzo aveva un nome: Ermenegildo Ceroni, Gildo per i colleghi professori. Arrivava da Imola ogni lunedì mattina con la sua 127 rossa e ritornava a casa il sabato.
L’idea che fosse pazzo svanì presto. Perché la matematica era un osso duro, soprattutto per chi non voleva studiare, e la mia era una classe di fancazzisti. Avevamo scelto un istituto professionale proprio per questo, alle medie ci eravamo dimostrati privi di qualità, e allora dovevamo andare a ingrossare la schiera operaia, la scuola non poteva pretendere troppo da noi. Lo avevamo capito anche dall’assenza di libri di testo, non avevamo l’obbligo di comperarne, potevamo prelevarli dalla biblioteca della scuola, tenerli al massimo quindici giorni e poi rimetterli a disposizione di altri. Ma credo di non sbagliare se affermo che le serrature degli scaffali della biblioteca erano arrugginite. Ricordo di aver comperato solo il testo di elettrotecnica ed elettronica, e il libro di inglese.
Il professor Ceroni non aveva preteso il testo, dovevamo seguire lui, ci dettava teoremi, regole, dimostrazioni, e poi ci davamo sotto con gli esercizi.
Detestava toccare il gesso e così cercò tra di noi uno scrivano; a uno a uno andammo alla lavagna a scrivere dei numeri (così avrebbe valutato chi aveva appreso la prima lezione) e alla fine scelse il suo scrivano: il sottoscritto. Non che avessi una bella scrittura, ma le altre erano peggiori.
Questo significò per me, nei tre anni che era rimasto a insegnare da noi, trovarmi sempre alla lavagna. Il mio quaderno era praticamente intonso. Ricopiavo gli appunti che dettava a fine lezione o quando mi consentiva di andare al posto, ma gli esercizi li svolgevo tutti alla lavagna.
Essere scrivano mi aveva permesso di galleggiare bene nel mondo della matematica, però qualche scivolone c’era stato. Come quella volta che, interrogato, mi chiese di risolvere quest’esercizio:
mx+mx=
La mente ha rimosso l’orrore che scrissi dopo quel segno di uguale, ma non credo che sia stato molto lontano da:
mx+mx=m2x2
Il buon Ceroni scattò in piedi e cominciò a camminare lento avanti e indietro tra i banchi. Era il segnale che tutti avevamo imparato a decifrare: c’era un errore, anzi un ERRORE, un TERRIBILE ERRORE. Guardavo il risultato e nervosamente cercavo di capire che cosa avevo sbagliato, ma in testa avevo un’eco che rimbalzava nel vuoto. Cercavo i suggerimenti dei miei compagni: «Fa mx2»; «No, fa mx-1»; «Devi scrivere: m(1+x)»… davanti a così illuminati suggerimenti preferii stare fermo e dare corso alla Storia.
«Bravo Camati! Bel risultato!»
Ermenegildo Ceroni da Imola quand’era arrabbiato aggiungeva una i al cognome del bravo studente se terminava con una consonante; se terminava con una vocale la sostituiva con la i; se terminava con la i, la raddoppiava. E questo confermava che non si stava vivendo un bel momento.
Il professore, mentre girava tra i banchi, guardava negli occhi i suoi allievi e chiedeva:
«Che bravo Camati, vero?», e attendeva una risposta dall’interlocutore di turno, ma questi, timoroso di essere interrogato, sudava. Allora Ceroni si rivolgeva a qualcun altro, ma otteneva la stessa risposta: angosciato silenzio e sudore. Alla fine vinceva la sua ritrosia verso il gesso e cominciava a disegnare: tracciava un segno, poi andava, sempre calmo, in fondo all’aula ad ammirarlo, tornava, ne faceva un secondo e così via fino a completare l’opera. Erano due i temi: o un cappello a cilindro, o un maiale. Dandoci di volta in volta un tocco di originalità: un rammendo o una toppa al cilindro; l’occhio gaio o torvo al maiale, attendendo però l’assenso della classe. Per me disegnò un maiale.
«Che dice, Camati, gli disegniamo una bella coda arricciata?»
«Sì», risposi dimesso alla domanda entusiasta.
«Ecco una bella coda arricciata!», quindi tornava in fondo all’aula ad ammirarla.
Il finale comune ai due disegni era scrivere, a destra del cappello o del maiale, ‘ata’.
«Camati, le ha scritto una por…», e a me toccava finire la frase.
«…cata!»
«Esatto, Camati, lei ha scritto una porcata!», al che mi chiese di cancellare il disegno. Se avesse disegnato il cappello, la soluzione al rebus era ‘cappellata’.
«La vedo pensieroso, preoccupato, Camati. Meglio rilassarci: ci fumiamo una sigaretta?»
Dove voleva andare a parare? Disegnò due rettangoli e andò in fondo alla classe dicendo:
«Io e Camati ci fumiamo una sigaretta, a voi non dà fastidio, vero?», tutti facevano no con la testa.
«Però, Camati, meglio fumarle col filtro», e disegnò il filtro, poi girando per la classe spiegò che dovevamo pensare alla salute.
«Bene, adesso le accendo!», e disegnò la brace e il fumo che saliva, «Ah! Che bella aspirata rilassante! Aspiri anche lei, Camati!»
Girò per la classe spiegando che entrambi ci sentivamo meglio.
«Che sigarette stiamo fumando?», non sapevo che cosa rispondere, «ma le MS! Scriva la marca sulle due sigarette, scriva MS su una e MS sull’altra, così, bene. Camati, una MS più un’altra MS quanto fa?»
Mi sentii sprofondare, ecco dove voleva arrivare: «Due MS».
«E se invece di MS le chiamiamo mx: una mx più un’altra mx, quanto fa?»
«Due mx».
«Scriva il risultato, Camati!»
mx+mx=2mx
Suonò la campanella, l’interrogazione era terminata, ma quella lezione non l’ho più dimenticata: grazie Gildo!