Non preoccuparti, durerà

«Non preoccuparti, durerà», se le avessi ascoltate al telefono quelle parole, ci avrei creduto. Però eravamo uno di fronte all’altra, aveva un volto mesto che nascondeva qualcosa, non so se solo a me o a lei stessa, ma mancava di luce, percepivo una lieve brezza di rassegnazione, gelata, quasi la brezza fosse vento di tramontana.
«Ne sei certa?», chiesi nascondendo malamente l’inquietudine che mi stava salendo.
«Sì, lo sono», non mi stava guardando negli occhi, lo stava dicendo a qualcun altro, alla foglia caduta lì vicino o alla panca che ci ospitava del piccolo giardino pubblico, ma non lo stava dicendo a me.
«Se c’è qualche problema, dovresti dirmelo.»
«E che problema ci dev’essere?», ribatté forzando una risatina. Ma non riuscì a tenere lo sguardo su di me, si girò a cercare qualcosa, ero certo che non stava vedendo niente, aveva solo fretta di congedarsi.
«Non mi sembri serena».
Lei smise di osservare in giro e fermò la vista in un punto, la testa era leggerente abbassata sulla sinistra e dopo un pesante respiro, confessò: «Sì, è così».
«Mi vuoi dire che cos’hai? È a causa del lavoro, della famiglia, a causa mia?»
«No, niente di tutto questo», ora guardava verso il cielo, quindi fissandomi continuò, «Sono io, non centri tu».
«Va bene, ma che cos’è che non va?»
«Se lo sapessi te lo direi. È tutto così confuso, non sto bene con me stessa e quello che ho intorno mi opprime. Forse ho bisogno di stare un po’ da sola, mettere ordine nei miei pensieri».
Diamine, era arrivata a questo? Mi voleva lasciare senza dirmi il motivo?

Sono situazioni che non so gestire, ammesso che le voglia gestire, vorrei solo sincerità, per quanto crudele possa essere la risposta, vorrei sentire la verità dell’altra persona. E invece tutto si era ammantato di ambiguità, un’oleosa nebbia che mi dava fastidio e mi ripugnava. Il risultato in queste situazioni è un gran punto di domanda; la sofferenza si dilata, non dà tregua, non dà un suggerimento alla soluzione del problema; mi ha lasciato lì con me stesso a contemplare un insopportabile vuoto.
E che cosa ho fatto quando mi son ritrovato solo? Mi son messo a ricordare ogni discussione e a pesare parola per parola, cercando di ritrovare in uno sguardo, in un’espressione passata di lei la sua reità. Sapevo che mi avrebbe condotto solo a sentirmi sempre peggio ed ero già mal messo così, ma non mi è interessato, il dolore provocato dall’addio non mi bastava, ne volevo di più, un masochismo solitario che non avrebbe condotto da nessuna parte, solo al suo nome, anzi alla feritoria slabbrata che il suo nome strappato aveva impresso nel mio cuore.
Perché continuare a torturarmi? Perché togliere la crosta alla ferita che vuole rimarginarsi e rivederla sanguinare? Non me lo spiegavo, però cominciavo a trovare sollievo se la insultavo, se ripercorrendo la nostra relazione riuscivo a leggere la sua meschinità, la sua falsità. Allora a darle della ‘stronza’, della ‘puttana’ mi faceva sentire bene, sentivo che il mio maschio orgoglio era salvo.
Ma un simile atteggiamento non può durare e liberare dal dolore, sapevo che mi stavo mentendo, sapevo che lei non si meritava quegli epiteti, sapevo che non era così, i suoi baci erano sinceri, le sue parole non avevano un secondo scopo. È successo qualcosa che ha segnato il nostro rapporto, cose banali, all’inizio non ne davo peso, lasciavo scorrere, non era così importante, era così bello l’amore, che le piccole imperfezioni non potevano danneggiarlo.

Ora so che non è così, capisco che ogni banale fastidio va sanato, subito; non è un dramma litigare se lo scopo è andare avanti, chiarire, trovare una soluzione. Dovevamo parlarci per giungere a un cambiamento che avrebbe soddisfatto entrambi. Se lo scopo è dare valore all’altro, fargli capire che conta, che è un punto fondamentale della propria esistenza, la rappresentazione viva di ciò che non ci appartiene, che la vita è nella luce dei suoi occhi, ma non ha valore se non dà felicità a entrambi, allora la discussione, per quanto animata, rigenera. Quanto sarebbe stato bene parlarci!

E invece abbiamo sempre trovato rifugio nei sensi; attraverso di essi finivano in secondo, terzo piano le cose che ci infastidivano, le parole dette, gli atteggiamenti, i pensieri dell’altro. Però l’amplesso dura poco, è un inganno fugace, alla fine resta la coscienza e quella non la puoi ingannare; la personalità, le idee, i desideri non vengono scalfiti dal sesso, trovano un’effimera sospensione per poi ripresentarsi in tutta la loro drammaticità.
Se l’amore è amore, allora non deve soprassedere, deve mettere tutte le carte in tavola, sia i carichi sia le scartine, non per vincere una partita, non per piegare l’altro alla propria verità (chi possiede la verità? Nessuno), ma per piegarsi reciprocamente. L’amore è intreccio, entrambi i soggetti si devono piegare, drizzarsi, ripiegarsi, spostarsi a destra, a sinistra, sopra, sotto, al fine di costruire qualcosa di nuovo, che non è ne’ l’idea dell’uno ne’ l’idea dell’altro, è qualcosa di totalmente nuovo, di imprevisto, di inatteso, di non progettato, è spontaneo, è vivo, è la novità che nessuno dei due aveva pensato, è la meraviglia di essere giunti a una terra nuova, un mondo nuovo, è un dono che Dio ha pensato solo per quella coppia.
Se questo non avviene, se uno dei due non vuole piegarsi, se uno dei due non accetta di cadere nel mistero tenendosi mano nella mano, allora quella finta relazione può essere chiamata con qualsiasi nome, tranne che amore.


«Ecco dottore, questo è tutto quello che posso dire su questa storia, sono stato mancante io, lo è stata lei. Ci sono delle colpe? Ha importanza? Abbiamo sprecato un’occasione per spiccare il volo. Dico solo: che mi serva da lezione. Che ci serva da lezione», distolse lo sguardo dallo specchio, il suo dottore; non sorrise, non si sentiva leggero, non si sentiva liberato da un peso, sentì solo di doverla ringraziare: lei così confusa che non ha saputo dirgli altro che «Non preoccuparti, durerà»; lei che alla ferita di un addio, ha preferito consegnargli la stanca carezza della speranza; lei che, malgrado tutto, gli ha fatto scoprire molto di sé; lei che, come lui, temeva di parlare.

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