Guardandolo da fuori si capisce che è un bar per vecchi: il muro segnato e lordato dal tempo, i portoni d’ingresso sono ancora in legno e vengono chiusi alla sera da dentro, in quanto i proprietari vivono al piano superiore, i due tavoli in alluminio, rotondi e scarni, con le sedie di plastica intrecciata ormai spente nel colore, sono l’unico tocco di ammodernamento, risalente a cinquant’anni prima.
Avvicinandosi si respira un odore acre, di fumo, una nube tossica che ha regnato indomita per decenni, stazionando tra i tavoli dove gruppi di esperti del tresette, dell’interpretazione dei segni, calavano decisi la carta battendo le nocche sul tavolo per dare risalto alla scelta fatta e intimorire l’avversario. C’era anche un flipper, per qualche giovanotto da introdurre al mondo adulto del bere. Poi sono arrivati i guastafeste, una legge aveva proibito di fumare nei luoghi pubblici, dissolvendo piano piano la nube tossica e portandosi via anche il piacere di giocare a carte. Ora che i tavoli sono meno affollati, in un angolo seminascosto ci sono tre macchinette luccicanti dove solitari sprovveduti tentano la fortuna. Con la legge contro il fumo si è fatto un torto all’umanità, pensa il vecchio Angelo, almeno prima si moriva lentamente e assieme in allegria, ora si impiccano solitari alla loro disperazione.
Angelo si siede fuori dal locale, a uno dei due tavoli di alluminio, dentro ha poco senso restarci, nessuno gioca più a carte, c’è il frastuono delle macchinette mangia soldi e il televisore acceso su un canale musicale: manca l’umanità. E poi entrando si fa più forte l’odore acre del fumo che è rimasto impigliato tra le malte e il legno del bancone, per Alfredo è fonte di nostalgia e gli evoca il torto che la legge ha inflitto a chi era abituato a spendere il tempo a carte, vino e cicca.
Al bancone non ci sono più l’Osvaldo e la Luigia, lei riposa al camposanto, lui dimentica, lo guardi e capisci che osserva il nulla, obbedisce come un bambino alla badante. Ora al banco c’è la Samantha, la loro figliola, ha quarantadue anni, sposata a un vigile urbano e ha due figli alle superiori. Non ha mai voluto rinnovare il locale, dice che il legno consumato del bancone e dei tavoli parlano, se si sta attenti si sentono ancora tutte le bestemmie e gli insulti urlati per aver calato l’asso. Ma con maggiore attenzione, specie presso il tavolo più in disparte o al limite del bancone, si ascolta il pianto di un amore non corrisposto, annegato inutilmente nel vino; oppure emergono le parole frettolose degli amanti, dei tradimenti. Non se la sente di buttare via tutto per rendere l’ambiente più accattivante per i giovani. Forse un giorno lo faranno i figli che quelle storie non le sanno ascoltare, ma non lei.
Angelo è d’accordo, vedovo in pensione, una vita da falegname, all’occasione viene interpellato da Samantha per delle riparazioni, una sedia che cigola, un cantone del bancone da sistemare, sa restaurare bene ogni cosa. Certo, ha i suoi tempi, ma Samantha è la proprietaria del bar All’ombretta e la fretta lì è bandita. Serve la calma perché toccando quei mobili si sta mettendo mano alla Storia. Era stato per decenni il confessionale del paese, i frequentatori si raccontavano le rispettive magagne; era la sede notarile, si siglava con una stretta di mano e un bicchiere di rosso un affare; era la stanza di casa mancante di ognuno. I processi calcistici li avevano inventati loro, se la squadra paesana, in seconda categoria, perdeva, il giorno dopo i giocatori venivano insultati, dovevano pagare l’offesa della sconfitta col vino, dovevano offrire a tutti i presenti e riflettere su come avevano giocato. Se vincevano invece erano degli eroi, se ne tornavano a casa in quattro gambe, in quanto dovevano accettare l’offerta di una bevuta da tutti: eh, altri giocatori, altra tempra!
Ci andava pure il parroco, aveva modificato la sua pastorale imparando dall’adagio: Se la montagna non va a Maometto, Maometto va alla montagna. E quella montagna di sbevazzoni non si spostava mai dal bar alla chiesa, così… Sapeva che era gente buona, laboriosa, ognuno con dei problemi, era suo dovere farsi vicino e sostenerli. Capitava che, vedendolo lì, qualcuno gli chiedesse di parlargli in disparte, un bicchiere di bianco simulava la stola e partiva la confessione. Purtroppo, non si sa se per le tante confessioni o perché non disdegnava il buon vino, anche le gote e le orecchie del parroco si facevano rosse, finiva il tempo delle confessioni e partiva quello delle barzellette. Il parroco ne conosceva tantissime, una più sporca dell’altra e mentre gli altri ridevano lui preoccupato diceva: «Domani mi devo confessare!», ma poi gliene veniva in mente un’altra e la raccontava. Era un buon diavolo il parroco, aveva capito che era più importante salvare un uomo che un rito.
Poi il mondo, chissà come, aveva preso un’accelerazione tecnologica e di costume impressionanti. Macchinine elettroniche erano entrate nei bar a soppiantare i flipper, ora si doveva sparare agli alieni. Si diventava sempre più attenti alla moda, si diceva che erano gli stilisti a trainare il Paese, si vedevano le tette in televisione. Apparire, a qualsiasi costo, arricchirsi, a qualsiasi costo. E quella fumeria chiamata bar e anni prima osteria, stava dimostrando segni di stanchezza, le carte da gioco erano diventate un passatempo casalingo.
Angelo una capatina quotidiana al bar la fa ancora. Si siede fuori a godersi il sole nelle mattine delle stagioni fredde o l’ombra del tiglio in quelle calde: quello significava farsi l’ombretta, cercare ristoro dalla calura sotto le fronde bevendo un bicchiere.
Samantha quando lo vede arrivare, senza scomodarsi dal bancone gli urla: «Il solito?» Quanto gli piace quella domanda! Vi trova una complicità, una conoscenza, un sapore di casa al quale non rinuncerà mai. Poi trovarsela davanti con quel vassoio tondo rialzato recante la pubblicità di una birra (chissà se la producono ancora), mentre gli porge quel bicchiere semplice, da osteria, che si nasconde in una mano mentre lei se ne va sorridendo, è un momento impagabile. Uno dei pochi gesti carichi di umanità, non è mestiere, è Samantha.
Angelo gioca col bicchiere, lo gira con due dita mentre osserva il mondo davanti: com’è cambiato. Ma è giusto che sia così, purché non gli portino via questo suo momento, il suo bicchiere di vino, quel tavolino e quel bar per vecchi. Il mondo vada pure avanti a costruirsi nuove storie, ma gli lasci il piacere di sentire ancora vive le sue. Gli lasci quel tavolino, non lo occuperà ancora per molto, Angelo accetta il tempo per quello che è, qualcosa di indipendente da lui, quindi non se ne preoccupa, è come un gatto acciambellato che se la passa alla grande a dormire, non lo considera tempo perso. L’ombretta è solo un pretesto per starsene seduto e osservare, senza pensieri, senza preoccupazioni, distaccato e presente. Gli piace il movimento delle persone, sentire le voci che chiamano, rispondere a un saluto. In quei piccoli gesti vi trova tutto il senso della vita: innamorarsene.