Una situazione ridicola

Sto passando l’aspirapolvere quando squilla il telefono.
Spengo l’elettrodomestico, esco dalla camera del mio secondo figlio e scendo all’ingresso; lì, su una mensolina dell’appendiabiti c’era il telefono. C’era. Tanto tempo fa. Ho tolto la linea fissa da quasi dieci anni, poi un paio d’anni fa ho acquistato una linea adsl, senza telefono, per i figli, si dice così, no? Per la scuola, invece ci attacchiamo tutti come sanguisuga. Da quella mensola, a intervalli precisi, parte il vecchio metallico DRIIIN: un secondo di suono e cinque di silenzio.
Mi sono accucciato per vedere sotto la mensolina se il mio primogenito ci abbia incollato un dispositivo in miniatura che manda quel suono, è un burlone. È al quarto anno di elettronica, passa ore a progettare e costruire basette elettroniche. Pensavo di trovarne una con un circuito integrato e un cicalino. Niente. Intanto sembra che gli squilli siano terminati. Sposto dal muro l’appendiabiti per vedere se la basetta è nascosta dietro, salgo su una sedia per verificare se l’ha adagiata sopra. Non c’è alcuna basetta. Alzo lo sguardo e mi osservo allo specchio delle ante, quello che riflette è l’espressione di un uomo impaurito. Forse il congegno è altrove, mi sono fissato che sia un celia del figlio maggiore e la basetta deve uscire. Cerco dietro i vasi da fiori, li alzo, sposto le foglie, analizzo il portaombrelli, ma non ha senso, il suono proveniva dalla mensola dove ci sono le chiavi dell’auto, un blocchetto di post-it colorati e una penna. Apro le ante continuo la ricerca, probabilmente è nascosta lì dentro. Frugo dentro le tasche dei giubbotti, dentro i capellini con la visiera, niente.
Mah! forse mi sono sbagliato, le medicine che sto prendendo contro l’influenza, la quale mi ha costretto a letto per due giorni e da altri due sto recuperando le forze, magari hanno degli effetti collaterali sgradevoli, come sentire le suonerie di un telefono. Devo leggere il bugiardino, ma prima devo finire di passare l’aspirapolvere.
Sara, mia moglie, dice che sbaglio a fidarmi della medicina allopatica, si ingeriscono veleni. Forse è vero, le ho sempre obiettato, ma la guarigione è garantita. Se fosse qui mi risponderebbe ironica che ho ragione, sto guarendo, ma sento squillare dei telefoni inesistenti, non è grave.
Torno in camera per terminare le pulizie. Appena entrato il telefono riprende a squillare. Probabilmente Federico, il primogenito, ha messo una fotocellula in camera che attiva il congegno dello squillo.
Torno all’ingresso, provo a capire da dove sta provenendo il suono, mi allontano dall’appendiabiti, ma proviene da lì, dalla mensola, poggio l’orecchio vicino e lo squillo mi vibra nel cervello, fastidioso e potente.
Il marchingegno è lì intorno, la mensolina è un blocco di legno incollato alla parete dell’appendiabiti, non si può staccare. Dopo un paio di minuti smette di suonare. Ripasso in rassegna i posti che ho già perlustrato, forse non ho cercato bene. Niente.
Cammino lento per ritornare in camera, dopo un passo attendo un attimo per sentire l’eventuale squillo, se tutto tace ne faccio un altro e così via. Riprendo a pulire, passo tutte le stanze, senza udire altri squilli.
Mi reco in cucina, è tempo di preparare un pasto ai ragazzi, sono prossimi a tornare da scuola.
Sto mondando della lattuga quando il telefono squilla. Mi guardo intorno, respiro profondamente, continuo a lavorare sotto l’acqua corrente del lavandino. Mi tremano le mani. I soliti interminabili minuti e poi il suono smette.
Paura e rabbia aumentano. Paura perché non ho trovato una risposta razionale allo squillo, rabbia perché il burlone di mio figlio mi sta mettendo in ridicolo.

Appena entra in casa lo aggredisco chiedendogli dove ha nascosto il marchingegno, lui trasecola, ma io incalzo, non deve mentirmi, sono su tutte le furie; si difende, non capisce, mi pare smarrito, rigetta le accuse, fino a che la rabbia sale pure a lui e prima ripete che non ha costruito nessun circuito del cazzo, ma insisto e lui mi manda a fanculo e sale in camera sua senza mangiare. Il secondogenito, rimasto al suo posto a tavola, in silenzio mi osserva, ha assistito a tutta la scena con discrezione. Mi chiede preoccupato se mi sento bene. Quel discorso sugli squilli del telefono sono, quantomeno, bizzarri, afferma. Non è che sia vero il contrario, ovvero che sono io quello in vena di scherzi e la cosa mi è sfuggita di mano? No, niente di tutto questo, rispondo a voce bassa, lo invito a continuare a mangiare. Mi siedo e tamburello con le dita. In effetti è una situazione ridicola, ma io quegli squilli li ho sentiti. Basta pazientare, se si ripresentano li sentiranno pure loro.
Busso alla porta della camera del maggiore, non risponde, entro comunque. È disteso sul letto con le cuffie in testa. Mi siedo accanto, mi sento in imbarazzo. Gli chiedo scusa, gli spiego che durante il mattino il telefono ha squillato più volte e ho pensato a una diavoleria di sua invenzione per farmi una burla. Mio figlio si toglie le cuffie e mi guarda preoccupato. Non ha costruito alcun marchingegno, come lo avevo chiamato, e comunque è preoccupante che affermi di aver sentito un telefono squillare.
Prende il cellulare e mi chiama. Suona la musica hawaiana, spegne la comunicazione. Perché mi ha chiamato? Per verificare che non abbia cambiato la suoneria impostando il vecchio squillo, ai vecchi della mia età piace, mi dice. Anche lui, come il fratello, mi chiede se mi sento bene o se erroneamente ho preso delle pastiglie non indicate per l’influenza. Niente di tutto questo, lo invito a scendere a mangiare.
Mentre pranziamo stiamo in silenzio, ogni tanto mi osservano, preoccupati. Io spero che il telefono squilli, ma non è accaduto per tutto il giorno.
«Sentite, vi chiedo una cortesia, non dite niente a mamma, forse erano suoni che venivano da fuori…», annuiscono poco convinti perché non ne sono convinto anch’io.

Il giorno dopo il maggiore è indeciso se andare a scuola, mi chiede se voglio che resti a casa, ma lo tranquillizzo, ho dormito bene, non è più accaduto, è stata solo una sciocchezza, ho travisato un suono, è più importante che se ne vada a scuola. In realtà non ho dormito, è stato un sonno disturbato da quel che era successo, l’angoscia che avevo provato era tornata puntualmente a farmi visita costringendomi a rigirarmi nel letto per trovare pace. Per ultima esce di casa mia moglie, ignara di tutto, sorridente mi ricorda che posso evitare di impasticcarmi per un’influenza, restando al caldo, passa.
Vado a sparecchiare la tavola e a riempire la lavastoviglie. Prendo le mie pastiglie, osservo attentamente quelle che sto per ingoiare e mi accomodo in salotto a leggere il giornale. Dopo un po’ squilla il telefono. Il cuore mi finisce in gola. Decido di non alzarmi. Ha smesso. Un paio di minuti e torna a squillare. Che cosa faccio? Mi balena l’idea di uscire in giardino o di vagabondare per il quartiere fino all’ora di pranzo. Poi cerco di razionalizzare. È solo frutto della mia mente, non ho il telefono, è solo conseguenza di uno stress.
All’ennesima chiamata, per provare a me stesso quanto sono stupido a preoccuparmi, mi alzo e vado verso il mobile d’entrata e fingo di alzare la cornetta.
«Pronto?»
«Ce ne hai messo a rispondere!» era una voce glaciale. Mi guardo allo specchio, sono diventato cereo.
«Non pensare di riattaccare! Non ho tempo da perdere, già ne ho sprecato troppo!»
Rimango un po’ in apnea, poi riprendo a respirare, in affanno, sento la voce di uno sconosciuto che mi parla da una cornetta immaginaria.
«No, non stai male, so che stai pensando a questo, non stai impazzendo, stai solo arrivando al capolinea!»
Taccio, cerco di trovare un senso a tutto questo.
«Perché te lo vengo a dire? Ottima domanda!», mi legge i pensieri.
«Perché tu sia pronto, hai poco tempo, se hai delle cose in sospeso devi risolverle, oppure le lasci andare, dipende da te. Quando ci risentremo non avrai più tempo per niente!»
Riattacco, insomma imito il gesto.
Sto impazzendo? Probabilmente sì, è la risposta più razionale. Ma un pazzo può essere razionale?

Un preavviso di morte. Chissà quanti lo desiderano, essere avvisati per mettere in ordine le cose veramente importanti rimaste a giacere in attesa del giorno giusto e lasciare questo mondo avendo contribuito a dargli una parvenza migliore, andarsene con la coscienza pulita e distribuire l’ultimo sorriso. Oppure dedicarsi a se stessi e fare quello che non si è mai fatto, ma lo si è sempre desiderato fare, tempo per rimandare non ce n’è più. Invece credo proprio che questo avviso lo si desideri solo a parole, convinti come siamo che la morte esiste, ma non per noi, altrimenti non ci maltratteremo tra di noi e non maltratteremo il nostro corpo; ci consideriamo immuni dal male, almeno fino a che non ci capita, e se ci capita comunque siamo certi di uscirne vincitori.
Ma che pensieri sto rincorrendo?
Sono tutti basati sull’irrazionalità, ho ascoltato una voce da un telefono invisibile. Ho sentito una voce, come i pazzi o come i mistici. A quale delle due categorie preferisco appartenere? Per la mia famiglia credo siano dannosi entrambi: non potrebbero fare più affidamento su di me, neanche per le piccole cose della vita, che non sembrano mai tali mentre le si affrontano, ma sembrano pareti difficili da superare, col rischio di rompersi l’osso del collo in una caduta e portarsi dietro moglie e figli se si precipita,; le piccole cose sono il motivo per cui si spegne la sveglia che trilla all’alba e si va coricarsi mal volentieri alla sera. Perché è così complicata la vita? Serve proprio questo correre, affannarsi, sopravvivere alla burocrazia, agli orari, alle feste comandate, al dovere? Se è vero che sto per morire, tutto quest’affaccendarmi per rispettare i pagamenti delle rate, rinnovare gli abbonamenti, acquistare un nuovo decoder per aver altri cento canali televisivi che si rimbalzano serie e programmi che hanno trasmesso sui trenta che già seguo, ma vuoi mettere? C’è una nuova serie, esclusiva del pacchetto che dovrò comperare, non posso stare senza. Tutto quest’affaccendarmi per rincorrere il superfluo che senso ha? Nessuno.

Se la voce ha detto il vero, ho poco tempo e devo scegliere: mi godo quel che rimane o mi dedico alla felicità degli altri?
Se la risposta è: voglio godermi il poco tempo che mi rimane, la domanda che viene di seguito è: perché ho lavorato per rendermi la vita infelice? Se Sara e i ragazzi sono un peso, perché sto con loro? Perché ho messo su famiglia?
Che idea insulsa mi viene quando penso alla ‘frase godersi la vita’, mi immagino nudo su una sdraio ai bordi di una piscina, sole alto, cielo blu e tutto il mondo al mio servizio. Chiedo e mi viene dato. È questa la felicità? Nessuna relazione, solo servi e gente disponibile a pagamento, mi compro tutto.
O la felicità è stata la fatica di capirmi con Sara, accusare Federico di aver messo una basetta elettronica che riproduce lo squillo del telefono e poi chiedergli scusa. Vederli uscire di casa mentre vanno a fare la loro parte nel mondo, Sara che mi ricorda di non imbottirmi di medicinali, osservare dalla finestra quel gatto che in giardino sta facendo la posta a un topo. Non cambierò il mondo, ma posso rendere migliore quel pezzo di mondo che ho attorno a me. Questa è la felicità, presumo, faticare per loro, avere un pensiero gentile per tutti, essere riconoscente a chi mi ha voluto in questo mondo per l’opportunità che mi ha dato; poco importa conoscere il motivo o il tempo che mi è stato concesso, accetto di vivere il presente e lo rendo eterno, finché durerà.

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