Pugni chiusi

Sono reduce dal concerto del grande Francesco Guccini.
Non l’ho atteso con trepidazione, non ho contato i giorni che mancavano alla serata, non mi sono canticchiato le canzoni nei giorni precedenti, emozioni e riti che mi ricordo osservavo alla vigilia di un concerto.
Ma ci tenevo d’essere presente all’incontro con un dispensatore di emozioni del suo calibro.

Il sentimento che più mi ha pervaso durante il concerto è stata la nostalgia, forse è stato il sentimento comune a tutte le teste incanutite (anche quelle delle tinte celanti delle signore) che erano presenti all’evento.
Non la nostalgia «di quei tempi là», ma per come mi sento cambiato, essere cosciente di aver detto addio al ragazzo che ero, quando “canzone per un’amica”, “il frate”, “incontro” (che, ahimè, non ha cantato) si sostituivano al sangue e mi circolavano nelle vene, erano essenze di vita, ora sono una tenera carezza.

E poi lui, rivederlo su un palco per la terza volta a distanza di anni, la prima volta è stato nel 1984, in quel di Bologna (la foto del pubblico in piazza Maggiore a Bologna, che fa da copertina a “fra la via Emilia e il west”, deve aver colto in quei tanti puntini anche la mia testa castana di allora, con trenta chili in meno), poi a metà degli anni ’90 a Bassano e ieri sera a Jesolo, mi ha dato il senso del tempo che passa, altro tema che gli è caro.
Cammina con il passo un po’ stanco degli anziani, ma pur sempre grintoso, capace di dominare la scena, libero di fare e dire quel che gli pare, tanto da presentarsi sul palco e cominciare a raccontare, come se fosse stato davanti a una ristretta cerchia di amici al bar, sciorinare i suoi pensieri senza fretta prima di imbracciare la chitarra e cominciare con “canzone per un’amica”. Credo che sia l’unico cantante a cui il pubblico concede di aprire un concerto raccontando e raccontandosi. E il narrare poi, era diverso, non aveva più la grinta giovanile, ma emanava il calore del focolare, esclusiva dei vecchi, che da un avverbio, un sostantivo, un sospiro, pescano nei loro ricordi e raccontano le loro storie, e mentre lo fanno altre si accavallano e vorrebbero consegnarcele tutte.

Per due ore e mezza ci ha intrattenuto con il piacere di vivere una serata tra amici con lambrusco e salame, ha concluso cantando l’ultima canzone tra le luci del palazzetto che si accendevano, per non lasciare dubbio alcuno che il bis non ci sarebbe stato.
Accalcati davanti al palco i più giovani che urlavano pure loro di non sapere che viso avesse e come si chiamava, con l’onda di braccia alzate e pugni chiusi che scandivano, più del ritmo, la forza delle parole.
Il pugno chiuso, un segno antico che aveva un valore simbolico grandissimo, dentro quella mano chiusa c’era un futuro collettivo tutto da immaginare e da costruire, oggi forse è solo coreografia, tanti alzavano il destro.

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