È un fremito, parte dal cuore. Ah! il cuore, ma non è solo un organo? Pare di no, se ogni forma d’arte lo ha posto al centro dell’esistenza dev’esserci un motivo, non è solo una pompa, mi dispiace per gli integralisti della scienza, dove a ogni cosa c’è un perché dimostrabile. Sul cuore non avete risposte, almeno non avete risposte ai fremiti che sento, non sono sistole o diastole fuori norma, è un pizzicorino che mi invita a prendere una penna se sento che il pensiero è veloce o una tastiera se sento un farfuglìo confuso che mi consente di mettere ordine ai pensieri. In ogni caso è una sensazione a cui devo dare risposta, che mi spinge a usare qualcosa, penna o tastiera, sta a me la decisione. So solo che devo sottomettermi, umile suddito, devo obbedire ai suoi comandi. I comandi di chi? non lo so chi sia, so solo che mi governa e che viene prima di tutto. Se disattendo l’invito non mi punisce, rimane un vuoto, un cuore che sbatacchia male, infelice per non aver colto l’attimo. Ho vissuto più infelicità che gioie, in questi casi. Se poi quello che il cuore mi spinge a concretizzare sul foglio o su una tastiera valga qualcosa per gli altri, non lo so. So che vale per me. È una sensazione pari alla fame, se non la soddisfi non passi oltre, rimane lì, è presente, ti sfianca, ti fa male, ti rovina la giornata, perché lei ha il sopravvento su tutto. Non è amore, non è fede, non è politica, ma non assecondarla significa che mi trascuro, mi dico che non è importante, non porta reddito (ah! maledetto questo mondo che mette il reddito sopra a tutto!), non porta fama, prestigio, onore. Non porta ad avere di più, ma toglie. Mi rendo conto che non assecondarla toglie molto alla mia esistenza. Questa è la mia peggiore malattia.
Avessi avuto l’attenzione a preparami, a coltivare la grammatica, il gusto della retorica, niente di tutto questo. Mi sento sempre il misero contadino che qualcosa o qualcuno lo ha portato a dover esprimere quel mondo che lo tormenta dentro, che lo fa soffrire e lo trasforma nel fisico, come fa un concepimento sul corpo di una ragazza. Quella cosa che cresce dentro in qualche modo deve essere data al mondo, potrà essere imperfetta, poco importa, deve essere donata, non so chi me lo richieda, ma è un atto che va compiuto. Mi rimane solo l’imbarazzo, che scivola lento nella vergogna. Chi sono io per dire certe cose, per vestire i panni del narratore? Uno dei tanti? Un arrivista come tanti o un idealista come pochi? Uno della massa che fatica a vivere? Eppure le misere parole che riesco a raccogliere dal fremito del cuore, che tuttavia non riescono a descrivere quello che ho provato (non ci sono riuscito, mai), devono essere scritte e proposte, non per gloria, è più facile che raccolga la derisione, ma qualcosa mi spinge a esporle a offrirle. Come queste. Perché lo faccio? non lo so, mi sono lasciato guidare dal fremito. Ai più sembrerà una stupidaggine, eppure l’avevo dentro e mi tormentava, dovevo renderlo vivo. Mi perdonino i più che considereranno questa lettura tempo perso. L’ho fatto per me, solo per me.